Carlo Levi, la narrazione artistica e letteraria di un mondo sconosciuto e profondo

Pubblicato: Sabato, 04 Gennaio 2020 - Fabrizio Giusti

 

ACCADDE OGGI – Il 4 gennaio 1975 moriva a Roma lo scrittore di ‘Cristo si è fermato ad Eboli”

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Parlare di Carlo Levi (Torino, 29 novembre 1902 – Roma, 4 gennaio 1975) è sempre difficile. Vuol dire, di per sé, indagare la figura di un uomo di cultura e di un artista complesso, profondo, con una vita sicuramente non banale e piena di amore per la ricerca della Bellezza.

Fu un pittore, un politico, uno scrittore capace di spiegare il Novecento da un’angolazione inedita. Già nella sua pittura, ad esempio, è possibile notare le trasformazioni sue e del tempo vissuto. I ritratti, le nature morte e le figure impresse sulle tele sono ancora oggi dei segnali inequivocabili della storia dell’uomo in quegli anni difficili di guerre, dittature, isolamenti, confini.

Un mondo al femminile, anche, prima attraverso un tocco evanescente e magro, poi più concreto grazie a quella che lui definiva la ’pennellata ondosa’, grazie alla quale disegnò e scolpì i corpi, lasciando poco spazio ai dettagli circostanti. Un percorso che emerse anche nei suoi autoritratti dove si permise una introspezione nelle fasi della sua vita: dai giorni nel carcere fino ad Aliano e oltre. Un percorso che però si esaltò nei suoi ritratti - bellissimi - di scrittori, amici, delle sue donne. Tutti personaggi a cui lui restituì l’anima, la fase intima, e il senso del rapporto umano.

Cosa fosse la sua indole, di pittore o di scrittore, lo si può comprendere anche da una surreale e interessante intervista con Indro Montanelli, fortunatamente salvata dalla multimedialità moderna, a metà tra gioco e filosofia, in cui emergono la sua voce, la sua creatività e la sua sensibilità.

IL SENSO DELLA STORIA - “Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell'altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte .– Noi non siamo cristiani, – essi dicono, – Cristo si è fermato a Eboli –. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla piú che l'espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dall'orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto”.

In questo lungo passaggio del suo capolavoro riconosciuto, ‘Cristo si è fermato ad Eboli’, possiamo ritrovare il Carlo Levi che cambia la sua visione sull’esistente e sull’esistenza, scoprendo un’umanità a lui fino a quel momento sconosciuta ed inedita, dopo aver vissuto a lungo dentro ad altri ambienti, tutti cittadini e vitali.

Nato a Torino nel 1902, figlio di Ercole Raffaele Levi e Annetta Treves, un'agiata famiglia ebraica della borghesia torinese, si era interessato subito da ragazzo alla pittura, passione che coltiverà per tutta la vita. Nel periodo degli studi universitari, tramite lo zio, l'onorevole Claudio Treves, esponente popolare del Partito Socialista Italiano, conosce Piero Gobetti, che lo invita a collaborare alla sua rivista La Rivoluzione liberale e lo introduce nella scuola del pittore ed incisore Felice Casorati.

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Carlo Levi, in questo contesto culturale e di pensiero, frequenta Cesare Pavese, Antonio Gramsci, Luigi Einaudi, Edoardo Persico.

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Nel 1923 va a Parigi, dove viene a contatto con le opere dei Fauves e di Amedeo Modigliani, condividendo una sorta di spirito ribellione contro la la cultura ufficiale italiana e il fascismo. Durante questo viaggio scrive il primo articolo sulla sua pittura per la rivista 'L'Ordine Nuovo' di Gramsci. L'assidua frequentazione con Felice Casorati, inoltre, orienta la prima attività artistica fino alla Biennale di Venezia del 1924. Alla fine del 1928 prende parte al movimento pittorico dei ‘sei pittori di Torino’, insieme a Gigi Chessa, Nicola Galante, Francesco Menzio, Enrico Paulucci e Jessie Boswell, che lo porterà a esporre in diverse città in Italia e in Europa e alla I Quadriennale nazionale d'arte di Roma nel 1931.

Levi considerava la pittura una massima espressione di libertà, anche in contrapposizione all'arte ufficiale e conforme al regime fascista e al movimento futurista.

Nel 1930 matura il suo stile espressionista, ove i ritratti e i paesaggi coprono una decade drammatica per la sua stessa esistenza. Compie un viaggio attraverso la Gran Bretagna con Nello Rosselli, e nel 1931 si unisce al movimento antifascista di "Giustizia e libertà", fondato tre anni prima da Carlo Rosselli. Nel marzo 1934 è arrestato per sospetta attività antifascista. Alcuni artisti residenti a Parigi firmano un appello per la sua liberazione. Tra il 1935 e il 1936 è  al confino politico in Basilicata, esperienza che  ispirerà il romanzo "Cristo si è fermato a Eboli" (pubblicato nel 1945), la sua opera letteraria più famosa. Non interrompe, anzi raffina, la sua attività di pittore.

Al confine matura una nuova visione, ed osserva: “Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale. Essi non hanno, né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dèi dello Stato e della città non possono aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l'antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee. Non possono avere neppure una vera coscienza individuale, dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico”

Cristo è sceso nell'inferno sotterraneo del moralismo ebraico - prosegue più in là - per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell'eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli”.

Nel romanzo, Levi denuncia le condizioni di vita disumane di quella popolazione contadina, dimenticata dalle istituzioni dello Stato. La risonanza che avrà il romanzo metterà in ombra la sua attività di pittore. La stessa pittura di Levi sarà influenzata dal suo soggiorno in Basilicata, diventando più rigorosa ed essenziale, realista.

Nel 1979 il romanzo verrà adattato per il cinema da una meravigliosa regia di Francesco Rosi e una grande interpretazione di Gian Maria Volonté.

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La salma dello scrittore torinese oggi riposa nel cimitero di Aliano, dove volle essere sepolto per mantenere la promessa di tornare che aveva fatto agli abitanti. L’artista tornò comunque più volte in terra di Basilicata nel secondo dopoguerra.

Dopo il confino, Levi, nel 1943, venne nuovamente arrestato. Dopo l'8 settembre, prese parte attiva alla resistenza come membro del Comitato di Liberazione della Toscana. Fu direttore del quotidiano "La Nazione del Popolo" e, nel 1945, de "L'Italia libera".

Nel 1947 si stabilì a Roma e si schierò a favore della pittura realista. Molti soggetti pittorici mostrarono la sua partecipazione ai problemi socioeconomici del Mezzogiorno. Una certa delusione per la crisi politica del dopoguerra ispirò un altro libro celebre, L'orologio (1950). I libri successivi saranno ‘Le parole sono pietre’ (1955); ‘Tutto il miele è finito’ (1964). Sono viaggi tra Sicilia e Sardegna in cui permane il suo impegno per un’Italia meno considerata dal boom economico.

Nel 1963, per dare peso alle sue inchieste sociali sul degrado generalizzato del paese, svolge attività politica con il Partito Comunista Italiano. Candidato, viene eletto per due legislature Senatore della Repubblica, come indipendente: la prima volta nel collegio di Civitavecchia, poi nel collegio di Velletri.

Muore a Roma nel 1975.

Una delle migliori descrizioni della sua arte la descrisse Italo Calvino: “Questa dell'amore per le cose di cui parla è una caratteristica che bisogna tener presente se si vuole riuscire a definire la singolarità dell'operazione letteraria di Levi. Perché quest'uomo che si dice sempre che mette se stesso al centro d'ogni narrazione, che fa scaturire sempre attorno alla sua presenza incontri straordinari, è poi lo scrittore piú dedito alle cose, al mondo oggettivo, alle persone. Il suo metodo è di descrivere con rispetto e devozione ciò che vede, con uno scrupolo di fedeltà che gli fa moltiplicare particolari e aggettivi. La sua scrittura è un puro strumento di questo suo rapporto amoroso col mondo, di questa fedeltà agli oggetti della sua rappresentazione”.