Sergio Leone e l'emozione del suo grande cinema
Pubblicato: Martedì, 03 Gennaio 2023 - Fabrizio GiustiACCADDE OGGI - Nasce a Roma il 3 gennaio 1929 uno straordinario talento
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I film di Sergio Leone (Roma, 3 gennaio 1929 – Roma, 30 aprile 1989) sono stati un’opera d’arte irripetibile, un monumento che sarà per sempre ammirato com'è, nella sua architettura geniale, nella sua fisionomia ironica e crudele.
A Leone si attribuisce, storicamente, il merito di aver colto la forza del silenzio. E dei silenzi, in effetti, fu maestro e interprete di capolavori ancor oggi studiati nel mondo. Le sue situazioni di attesa, i primi piani che hanno segnato un'epoca, le musiche di Ennio Morricone: tutto questo è un patrimonio culturale che fa parte di tutti coloro che hanno visto le sue pellicole al cinema.
Ma il regista romano non arrivò al successo per caso. Prima di diventare quello che sappiamo, fece un lungo lavoro di assistenza dietro la macchina da presa. Acquisì così, con tanta sapienza, il suo bagaglio e la sua tecnica raffinata.
Era figlio d’arte. Sua madre, Bice Waleran (Edwige Valcarenghi), era stata attrice del cinema muto, il padre Vincenzo (Roberto Roberti) diresse Francesca Bertini. L'esordio dietro alla cinepresa avvenne con "Gli ultimi giorni di Pompei" nel 1959, sostituendo Mario Bonnard. L’esordio assoluto fu ne "Il colosso di Rodi", filmone storico-mitologico che seguiva una tendenza di grande moda. Poi iniziò la sua rivoluzione. Il western, lontano da tutti i cliché. I tagli stretti, le emozioni condensate dentro una serie di sguardi, di primi piani, di spari.
Leone ti disorientava. Vestiva il cattivo di bianco e il buono di nero. Era capace di grandi sequenze, di valorizzare gli attori nella loro massima forma interpretativa, fisica. Il volto di Claudia Cardinale, quelli di Clint Eastwood o Henry Fonda, la musica sul set. Le melodie e l’immaginazione che andavano oltre, a curiosare la psicologia dei protagonisti.
Leone era un uomo generoso e cinico. Scopriva il talento senza farsi condizionare. Clint Eastwood, fino ad allora attore televisivo con pochi ruoli all'attivo, è diventato un mito grazie alla sua interpretazione in "Per un pugno di dollari" (firmato con lo pseudonimo di Bob Robertson che significa "Roberto Roberti" o "Roberto figlio di Roberto"), ove venne descritta una violenta e complessa visione del ''Far West'' americano. E' un film storico perché non solo fu una sorta di tributo ai classici del genere, ma anche un modo per distaccarsi dai toni e dalla leggenda di quell'ambito. Realismo, verità, barbe incolte: una cornice di visioni che azzerò tutte le convinzioni pregresse. Un realismo ed un perfezionismo che trovarono molti momenti di eccellenza, come nelle epocali scene girate nel ''Sad Hill Cimitery'', un camposanto progettato dal geniale Carlo Simi, ove Leone fu capace di mettere dentro ad una bara le ossa vere di una signora spagnola che aveva lasciato detto di voler recitare anche da morta. Colpi di arte.
"Per qualche dollaro in più" (1965) e "Il buono, il brutto, il cattivo" (1966) completarono "Trilogia del dollaro". Non furono solo un successo in termini di qualità e di giudizi, ma anche - e più materialmente - di incassi. Cifre enormi, che aiutarono non poco la fama di Leone a livello internazionale. Le sue fortune arrivarono direttamente dalla sue capacità di sapersi contornare di persone di talento, dentro e fuori del grande schermo, da Ennio Morricone ad attori come Gian Maria Volonté (Leggi: Gian Maria Volonté, l’attore controcorrente che guardava l’orizzonte come fosse una sfida) e Lee Van Cleef.
Fu poi il tempo di "C'era una volta il West", un progetto che il regista italiano coltivava da lungo tempo con un elevato budget. Un capolavoro girato negli splendidi scenari della Monument Valley, in Italia e in Spagna, arricchito da una lunga meditazione sulla mitologia del West stesso. E non è un caso, riprendendo il discorso sulla convivialità delle eccellenze, che al soggetto di questo film collaborano anche Bernardo Bertolucci e Dario Argento.
E' una pellicola simbolo di quegli anni e delle visioni del regista, dove interagiscono la fine di un’epoca, la Frontiera, Henry Fonda, Charles Bronson, gli elementi di ferocia inesorabile, la vendetta e la morte in un quadro di sentimenti e immaginazioni, di poesia dei rumori (come nella memorabile e lunghissima scena iniziale) che furono parte anche di un altro film epico, "Giù la testa", interpretato dagli indimenticabili James Coburn e Rod Steiger, ambientato nel Messico di Pancho Villa e Zapata, ove si fa amplia la riflessione sul genere umano e la politica. Una malinconia intima, dove la sublime colonna sonora si incastra perfettamente nella incredibile capacità di questo regista di rendere tutto colossale, melodico, armonioso allo stesso tempo.
Conclusa la fase western e quella del passaggio dentro la storia, nel 1984 Sergio Leone concepisce, con un grande sforzo fisico, "C'era un volta in America" (Robert De Niro, James Woods), da molti considerato il suo capolavoro assoluto. Il film si colloca negli anni del proibizionismo. Nella trama si narrano storie di gangster e di amicizia, di pistole, di sangue, sentimentalismi, nostalgie. E' il ritratto di qualcosa di più ampio e più intimo, una sorta di tributo all'adolescenza di Leone, vissuta in Viale Glorioso, a Roma negli anni trenta, dove si rivivevano storie dei cowboy e di giochi sulla scalinata tra Monteverde e Trastevere. E' il suo ultimo lascito.
Verso la fine degli anni ottanta, Leone si lanciò nel laborioso progetto di un film incentrato sull'assedio di Leningrado, ma un infarto lo stronca il 30 aprile 1989. Nel frattempo legò la sua persona a quella del primo Carlo Verdone e di ‘Un sacco bello’. Una frammento profondamente romano, umano, professionale, severo e divertente. Ma è un'altra storia, prolungamento - comunque - di un percorso che ha illuminato e affascinato gli occhi dello spettatore in un modo fuori dal comune. Senza precedenti e senza eredi.