Cesare Pavese, grandezza e fragilità di uno scrittore

Pubblicato: Sabato, 27 Agosto 2022 - Fabrizio Giusti

 

 

ACCADDE OGGI - Il 27 agosto 1950 l'ultimo gesto di un grande narratore e uomo di cultura

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“Il mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone provinciale dove giocavo da bambino. Siccome - ripeto - sono ambizioso, volevo girare per tutto il mondo e, giunto nei siti più lontani, voltarmi e dire in presenza di tutti 'Non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo di là'".

Cesare Pavese aveva ben saldi, dentro di sé, i valori della terra. Le origini, per lui, volevano dire qualcosa. Nel suo incedere terreno, permeato da un disagio esistenziale profondo che lo porterà ad una scelta definitiva, non perse mai di vista questo sentimento che lo aveva formato da bambino.

 

Cantore della ricerca dell’autenticità del vivere, Pavese aveva tenuto sullo sfondo le natie langhe, punto di riferimento di una coscienza riflessiva e un po' schiva. Scrittore, poeta, traduttore, amico e collaboratore di Carlo Levi, Leone Ginzburg, Massimo Mila, diresse la rivista “La Cultura" tra il 1934 e il 1935, anno in cui viene arrestato per antifascismo. Condannato al confino, tornò a Torino per pubblicare, nel 1936, nel periodo di pieno consenso del regime di Mussolini, la raccolta poetica ''Lavorare stanca'' e nel 1941 ''Paesi tuoi'', il suo primo romanzo. Seguiranno ''Il compagno'', ''La casa in collina'', ''La bella estate'', ''La luna e i falò'', ultima fatica prima della scomparsa.

 

Personaggio complesso e diverso, anche nella lettura della realtà di quegli anni di guerre, resistenze, lotte partigiane e liberazioni. Ne ‘La casa in collina scrisse”: “Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono piú faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”.

 

Quindi quegli appunti  del 1942-43, trovati ai primi anni ’60 dello scorso secolo, in cui si palesa un Pavese persino indulgente verso Mussolini e critico verso gli antifascisti. Un passaggio controverso e ancora dibattuto, ma all'interno del quale è ardito dare giudizi definitivi o ambire ad altrettante spiegazioni, disponendo etichette ideologiche o revisioniste come qualcuno, qui e là, ama fare.

Era la colonna della Casa editrice Einaudi. Un luogo di interezza intellettuale, per lui. Ci entrava alle otto del mattino, ci usciva alle otto di sera. Era il lavoro, il rapporto con l’Italia e l'Europa letteraria, la cultura. Tradusse 'Moby Dick' di Herman Melville, scrisse un saggio su Anderson,insegnò nelle scuole pubbliche. Se Fernanda Pivano si avvicinò alla letteratura americana lo si deve a lui e ad un suo regalo fatto a quella che allora era solo una brillante studentessa. Nel 1933 tradusse 'Il 42º parallelo' di John Dos Passos e 'Ritratto dell'artista da giovane' di James Joyce. E’ stato un gigante della nostra letteratura. 

 

Negli ultimi anni della sua esistenza piuttosto tormentata fece tappa un poco a Milano, poi tornò a Roma, dove era stato già nel 1943, tra il dicembre del 1949 e l'Epifania del 1950. La città 'caciarona' era poco consona alla sua identità di uomo. Non gli piacque. Scrisse sul suo diario: "Roma è un crocchio di giovanotti che attendono per farsi lustrare le scarpe. Passeggiata mattutina. Bel sole. Ma dove sono le impressioni del '45-'46? Ritrovato a fatica gli spunti, ma niente di nuovo. Roma tace. Né le pietre né le piante dicono più gran che. Quell'inverno stupendo; sotto il sereno frizzante, le bacche di Leucò. Solita storia. Anche il dolore, il suicidio, facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazioni suicide. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell'armatura. Eri ragazzo. L'idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler più morire".

Era arguto, più che allegro. Vedeva in sostanza 'con un occhio solo', come ricordava, perché pervaso da una sorta di divisione interna. Era schivo, ritroso talvolta. Ritornando a Torino conobbe l'attrice Constance Dowling, con la quale iniziò un rapporto che si interruppe quando la donna ripartì per l'America per tentare di nuovo la fortuna a Hollywood. Al suo ricordo dedicò il romanzo 'La luna e i falò': "For C. - Ripeness is all". Caduto definitivamente in quello che Giuseppe Berto identificò come il 'male oscuro', non trovò sollievo nemmeno nel 'Premio Strega' che giunse nel giugno del 1950  per 'La bella estate'.

Il 17 agosto del 1950 scrisse (il diario, pubblicato nel 1952, prenderà il nome de ''Il mestiere di vivere''): ''Questo il consuntivo dell'anno non finito, che non finirò''. Il giorno dopo aggiunge: ''Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più''. Decise di lasciare il mondo terreno il 27 agosto del 1950 in una camera dell'albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino. Venne trovato disteso sul letto. Aveva ingerito più di dieci bustine di sonnifero.

Sulla prima pagina dei ''Dialoghi con Leucò'', che si trovava sul tavolino, lasciò scritto: ''Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi''. All'interno del libro, un foglietto con tre frasi: «L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d'immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia'', ''Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti'' e ''Ho cercato me stesso''. I suoi funerali furono civili, senza commemorazioni religiose. Ad un suicida e ateo non erano dovute.

Pavese fece della scrittura il sostituto integrale dell'esistenza. Nero su bianco, sentenziò: "Ho imparato a scrivere, non a vivere". Era un autore sensibile e straordinario, capace di fiutare il senso della natura più estesa e profonda nella gravità delle crisi umane del suo tempo e della storia di quegli anni.  

''Ogni giorno che passa è un riandare

tutta la storia grigia della vita.

Una donna che appena mi ha parlato

mi ha messo in cuore come un gran germoglio

gonfio di gioia.

È una gioia vedere tanti rami

verdissimi nel vento e tanti fiori

prepotenti, sboccianti, è una gran gioia

perchè nel sangue pure è primavera''.