20 Settembre 1958: la Legge di Lina Merlin e la fine delle ‘case chiuse’. Dove si viveva in una "schiavitù legalizzata"

Pubblicato: Giovedì, 20 Settembre 2018 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Una normativa ancora discussa, ma che all’epoca ruppe un’usanza indegna di un paese civile

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E’ un Italia che va a vedere ‘I soliti ignoti’ di Monicelli, ascolta le canzoni di Nilla Pizzi, Gino Latilla, Giorgio Consolini e corre sulle ali di una potente ripresa economica quella che allo scoccare 20 settembre del 1958 vide la chiusura oltre 600 postriboli su tutto il territorio nazionale. E’ un’Italia lontanissima da quella odierna, quella che assiste a questa rivoluzione, a tale cambio di abitudini (soprattutto maschili). E’ un’Italia che sta lì ad un passo per stravolgere radicalmente tutto. Domenico Modugno sta già cantando ‘Volare’. Poco più in là sta arrivando la scuola dei cantautori che trasformerà un’intera generazione. E sta arrivando tanto altro ancora: nella politica, nel costume e nelle relazioni interpersonali, ma in pochi possono immaginarlo.

All'epoca la legge voluta dalla senatrice Lina Merlin sull’"Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui" fu ritenuta all'avanguardia per l'autodeterminazione delle donne. Le liberò, nella stragrande maggioranza dei casi, da un sistema di semischiavitù e schiavitù reale. Nei suoi 15 articoli venne punito il favoreggiamento della prostituzione, l'induzione alla prostituzione, il reclutamento di prostitute, lo sfruttamento ai fini della prostituzione e la gestione delle cosiddette ‘case chiuse’.

Il 20 settembre del 1958 finì l’epoca dell’Italia dove la donna poteva essere mercificata da una sorta di ‘Stato protettore’. Finì un’industria che contava oltre 700 case, 4mila prostituite per indigenza, disastri familiari, malattie e punizioni patriarcali che producevano un fatturato annuo di 14 miliardi di lire in ‘marchette’ (i gettoni che davano ai clienti il diritto assoluto su una “signorina”). Le tariffe andavano da un minimo di 500 lire per 5 minuti a un massimo di 10mila per un’ora. Tante delle donne che lavoravano in questi luoghi erano vedove che vendevano il loro corpo per mantenere la famiglia, donne emarginate con figli avuti fuori dal matrimonio, indotte da una povertà assoluta, persino istruite da ordini familiari. Dovevano garantire un certo numero di rapporti quotidiani (superiore ai 30), avevano orari incalzanti. Quasi nessuna ragazza godeva di una stanza singola, e a volte nemmeno di un proprio materasso.

Si chiuse, in quel settembre del 1958, un’epoca contrassegnata da uno degli scempi più drammatici della dignità di tutte le donne. Perché questo era e per questo arrivò una normativa. 

La grande opposizione politica, ai tempi, fu socialmente (ovviamente) degli uomini che non potevano rinunciare a quello che ritenevano persino un ‘servizio sociale’. Poi la prostituzione, come ben sappiamo,, uscita dalle case, si riversò gradualmente sulle strade. Fino ai confini attuali, ove spesso la tratta delle persone, in troppi casi totalmente schiavizzate, è diventato un problema di più gravi implicazioni perché, com’è noto, largamente gestito da piccoli e grandi gruppi criminali (che non si farebbero scrupolo a mettere le mani sul business di un eventuale ritorno alle case di tolleranza). 

Inutile dire che l’avvenimento del 1958 segnò una svolta nel costume e nella cultura dell'Italia. Per farsi un’idea del cambio di passo è consigliabile vedere un film del 1959, del grande regista Mauro Bolognini, ‘Arrangiatevi’, con Totò. Un fatto epocale, la chiusura dei postriboli, che avvenne comunque in una nazione piena di censure. Basta andare a ricercare in questo senso lo straordinario equilibrismo di parole del giornalista Ugo Zatterin al momento dell’annuncio dell’approvazione della legge nel telegiornale della sera, senza mai pronunciare il nome di ciò che è stato abolito. Un cammeo epico.

LA SENATRICE IN TRINCEA - Lina Merlin è stata una politica, una partigiana, un'insegnante. Fu componente dell'Assemblea Costituente e prima donna a essere eletta al Senato. Da maestra, si interessò alle condizioni in cui vivevano le donne del suo tempo. Non tollerava l'ipocrisia dei capi di famiglia osservanti di fede, che però non trovavano alcuna contraddizione tra i loro principi e il frequentare le prostitute. Era invece scandaloso per una donna avere rapporti sessuali fuori del matrimonio.

Lina si iscrisse al Partito Socialista Italiano, cominciando a collaborare al periodico "La difesa delle lavoratrici" (Leggi: 29 dicembre 1925: la morte di Anna Kuliscioff, l’amante del progresso che aiutò le donne ad alzare la testa). Collaborò con il deputato socialista Giacomo Matteotti. Quando, nel 1925, quest‘ultimo fu assassinato durante i primi anni del governo Mussolini, in meno di due anni fu arrestata cinque volte, venne licenziata dal suo impiego di insegnante. Poi, in seguito alla scoperta del complotto per attentare alla vita del Duce da parte di Tito Zaniboni, il suo nome venne iscritto nell'elenco dei "sovversivi" e affisso nelle strade di Padova. Andò a Milano, collaborò con Filippo Turati. Arrestata e condannata a cinque anni di confino, scontò la sua pena in Sardegna ove rimase colpita dalla povertà delle popolazioni della Barbagia. Insegnerà alle donne del posto a leggere e a scrivere.

Si sposò con l’ ex deputato socialista di Rovigo Dante Gallani, ma ne rimase vedova dopo appena quattro anni. Prese parte attivamente alla Resistenza. Dopo la fine della guerra si trasferì a Roma, seguendo il suo incarico alla direzione nazionale del PSI. Nel 1946 venne eletta all'Assemblea Costituente. Membro della "Commissione dei 75", risulterà determinante per la stesura dell'articolo 3: "Tutti i cittadini...sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso", ovvero la base giuridica per il raggiungimento della piena parità di diritti tra uomo e donna.

Fin dai primi giorni della sua attività parlamentare dedicò tutti i suoi sforzi al miglioramento della condizione femminile in Italia e allo stanziamento di risorse per lo sviluppo dell'area del Polesine, che il 14 novembre del 1951 era stata devastata da una terribile alluvione che aveva causato 84 morti e 180mila sfollati. (Leggi: Polesine ‘51, l’alluvione dell’Italia che usciva dalla macerie - VIDEO)

La Merlin prese poi in mano la madre di tutte le battaglie: abolire la prostituzione legalizzata in Italia. Nel lungo dibattito decennale che animò la realizzazione della legge si dovette battere contro le avversità esterne ed interne al suo partito. Dovette resistere, soprattutto, alle battute, persino dei colleghi del parlamento, davvero poco compatibili con il luogo istituzionale in cui era. Nel 1961 le il partito gli fece sapere che non intendeva ripresentare la sua candidatura nel collegio di Rovigo. Reagì strappando la tessera. Non ne poteva più – disse - di “fascisti rilegittimati, analfabeti politici e servitorelli dello stalinismo”.

UNA LEGGE PER LIBERARE LA SCHIAVITU’ - La legge italiana in vigore fino ad allora prevedeva che venissero eseguiti controlli sanitari periodici sulle prostitute. in realtà si scoprì che questi avvenivano sporadicamente, soggetti alle pressioni da parte dei tenutari, soprattutto al fine di impedire di vedersi ritirata la licenza per la gestione dell'attività. La Merlin puntò il dito contro i clienti dei bordelli, mosse il velo dell’ipocrisia, difese quelle donne (tante) che la sostenevano.

“Non dimenticherò mai – ricordò - quel luglio caldo, quando un gruppetto di loro venne a Montecitorio. Piangevano: “Si­gnora, 14 ore chiuse dentro una camera a servire 120 uomini al giorno, signora, non è possibile, chiuda quelle case e sarà una santa”. “La mia legge – proseguiva - mirava solo a impedire la complicità dello Stato. La prostituzione non è mica un crimine, è un malcostume”. Era un’altra epoca, dove regnava anche una certa ignoranza generale sul ruolo delle donne e le loro capacità. L’On Caporali, della Dc, durante una seduta parlamentare sul tema arrivò a dire: “Il cervello pesa 1157 grammi nell’uomo e 995 nella donna secondo il celebre anatomista Broca. L’intelligenza è minore nella donna”. Dall’altra parte c’era una società che si muoveva.

“Essendo disoccupata dal 1943 e avendo una bimba di nove anni a carico, sono caduta anch’io in quel fango, ho dovuto vendere la mia carne. Ora, già da due anni male non ne faccio più, però lavoro per me non ce n’è.”. Così scriveva una delle tante prostitute che sostennero la causa della senatrice che vinse la sua battaglia dopo aver combattuto una vita. “Non chiamatele prostitute - dirà - sono donne che amano male perché furono male amate”. Liberando così migliaia di schiave, per coscienza e costrizione, dalla loro condizione. Con un valore di riferimento: ovvero che lo Stato, impegnato nei suoi principi e fondamenti civili costituzionali, non potesse essere mai complice di un delitto contro la dignità delle persone.