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- Scritto da Fabrizio Giusti
ACCADDE OGGI – 8 febbraio 1888: nascita di un poeta leggendario. Gli anni a Marino, nei Castelli Romani, una tappa importante della sua vita
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La sua voce inconfondibile, sofferta nella declamazione, profonda nella evocazione, piena di vita che esondava dai suoi confini, è giunta sino a noi grazie agli archivi e alla tecnologia. Fortunatamente. Perché la voce di Giuseppe Ungaretti (Alessandria d'Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970), uno dei nostri più grandi poeti, è stato un tratto unico della sua storia conosciuta. Un immenso maestro di emozioni.
Nato ad Alessandria d’Egitto, come Filippo Tommaso Marinetti (leggi Marinetti, il genio che intuì la velocità moderna) e Demetrio Stratos, il giovane Giuseppe qui rimarrà fino ai 24 anni. Una specie di ‘esilio’, maturato dall’infanzia, che in un certo qual modo influenzerà il suo modo di leggere la vita e la poesia. Alessandria resterà il tempo della sua vita di bambino e di ragazzo, l’età della bellezza e della scoperta, ma anche dei dolori. A soli due anni, infatti, il padre Antonio era morto a causa di una malattia contratta sul Canale di Suez. Maria Lunardini, la mamma, gli diede comunque la possibilità di studiare presso l’Ecole Suisse Jacot. Anni in cui Giuseppe coltivò anche l’amore per i versi e la conoscenza. Lì, sulle sponde del Nilo, conobbe il ‘Mercure de France’ e ‘La Voce’ (leggi Giuseppe Prezzolini, il conservatore-anarchico che aveva capito gli italiani), riviste di grande formazione intellettuale.
Giunse poi il tempo nuovo, più a nord, nell’Europa che formava la cultura. Parigi. L’Università. La conoscenza di Guillaume Apollinaire - del quale avrà stima e ricordi per tutta la vita - Pablo Picasso, Filippo Tommaso Marinetti, Amedeo Modigliani, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi, Ardengo Soffici, Paul Fort. Un Pantheon. Ungaretti entrò a far parte di una delle riviste italiane più eroiche di sempre: Lacerba. Cominciò a personalizzare uno stile poetico, influenzato da Leopardi e da Mallarmè, dentro al quale vedeva il ‘segreto’ di una poesia indecifrabile e affascinante.
Nel 1914 Ungaretti si trasferì in Italia. Giusto 'in tempo' per la Grande Guerra. Visse a Milano, conobbe il direttore dell’Avanti!, Benito Mussolini, e si arruolò come volontario nell'esercito. In trincea, fra il fango, il freddo, i proiettili e i morti, portò con sé un taccuino di poesie che verrà stampato dall’editore Ettore Serra con un titolo non a caso, Il porto sepolto, omaggio al porto sommerso di Alessandria d’Egitto. Vicino a Udine, scriverà ‘Mattina’, composta da quattro parole per rappresentare una condizione individuale che diventava di tutti, condizione universale.
“Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917.
M’illumino
d’immenso”.
Il valore della parole davanti alle tenebre della guerra. Idee nude ed essenziali. Il conflitto, in quelle ore, lacerava ogni cosa. Ogni singolo uomo. Quella italiana, poi, fu una guerra che visse di sofferenze e di rivalse (leggi La ‘disfatta di Caporetto’: la storia di una sconfitta, di un esodo drammatico e di un riscatto). Ungaretti però non perse il faro dell’umanità, come in San Martino al Carso: “Di queste case/non è rimasto/che qualche/ brandello di muro./Di tanti/che mi corrispondevano/non è rimasto/neppure tanto./Ma nel cuore/ nessuna croce manca./ È il mio cuore/ il paese più straziato”. Un filone che si esalta nel suo “Si sta come d’autunno, sugli alberi, le foglie”. L'esiguità della produzione, il rifiuto del ricco linguaggio letterario. Ermetismo, si dirà. Oppure sintesi. Oppure salire rapidamente per abbreviare l’agonia. Come il ciclista sulla cima. Una cima emotiva, mentre infuria la battaglia.
Quando i campi di battaglia diventano oasi corrotte dal sangue e pacificate dai trattati, Ungaretti lavora come corrispondente a Il Popolo d’Italia di Mussolini e conosce una donna a cui si legherà per quasi trenta anni, Jeanne Dupoix. Nel 1925 firmerà il Manifesto degli intellettuali fascisti. Due anni prima era stato Mussolini a firmare per lui la prefazione alla riedizione della prima raccolta da poeta.
Sono anni di profondi cambiamenti. Ungaretti arriva a Roma. Trova casa a Marino, nei Castelli Romani. In una conversazione con il critico Ferdinando Camon, nel 1965, a Venezia, ricordò: “Vivevo allora, in quegli anni dopo la prima guerra, in uno dei castelli romani, a Marino. È un paesaggio legato alla Storia; ma scampavo da un paesaggio che sembrava non avesse se non una storia geologica: venivo dal Carso dove avevo fatto la guerra, e dall’Egitto, dal deserto confinante col mare, della mia infanzia e della mia adolescenza. Ero stato, è vero, a Parigi; ma erano anni nei quali non badavo al paesaggio se non di sfuggita. Ora, se penetravo nel bosco di Marino, o se arrivavo a un lago, a Albano o a Nemi, mi trovavo in mezzo a un paesaggio che era pieno di storia e con tali seduzioni della natura e tali lontananze nel tempo, da assumere come per prodigio aspetti di favola. Dall’atrocità della natura spoglia dell’Allegria passai dunque a un mondo dove prendeva forma mitica la storia nel suo trascorrere millenario e nella sua immediatezza”.
La prima casa era un piccolo appartamento di un palazzo di Corso Vittoria Colonna, al civico 68. Vi rimase per quattro anni. Nacque in questo periodo il secondogenito Antonietto (1930). Nel bisogno di una casa più grande, la famiglia si trasferì in viale Mazzini 7, nella zona dei “villini”. È il “Ghibellino”. La nuova casa ha il vantaggio di trovarsi più vicina alla stazione dei treni, sulla linea Albano-Roma, dove Ungaretti transita anche più volte al giorno. Per i lavoretti della casa si affida al signor De Marchis, un fabbro del paese. Ninon, la figlia più grande, frequentava intanto le scuole elementari presso l’Istituto delle Maestre Pie Venerini, in via Garibaldi. Il villino di Ungaretti diventò porto per frequenti visitatori, amici, ammiratori.
Il poeta lasciò Marino a causa dei suoi impegni personali, ma nell’agosto del 1969 ci tornerà. Il viaggio in automobile verrà filmato in un documentario, ‘Il tempo della poesia’, a cura del regista Francesco Degli Espinosa. Un’esperienza, quella di Ungaretti nei Castelli romani, ricordata oggi in una lapide sulla parete di Palazzo Colonna. Il testo recita: “In questa città visse / Giuseppe Ungaretti / dal 1927 al 1934 / qui riprese luce la sua poesia / dando sentimento al tempo e valore alla vita / a Marino per la prima volta gli sorrise / il “felice volto” del figlio Antonietto / la città, onorata di tanta presenza, pose / a ricordo del soggiorno del poeta / 10 febbraio 1990".
Gli anni nei Castelli romani furono anche gli anni della sua conversione al cattolicesimo, testimoniata ne ‘Sentimento del Tempo', la sua terza raccolta poetica edita nel 1933, anno in cui il poeta raggiunge il culmine della popolarità in Italia. Accetta la cattedra di letteratura italiana a San Paolo, in Brasile. Nel 1939 il figlio Antonietto muore a nove anni a causa di una appendicite mal curata. La stagione del lutto sembra propagarsi a tutta l’Italia, che entra in guerra. Al suo termine, benché Ungaretti non si riconoscesse più da tempo nel regime fascista, venne sospeso dall’insegnamento fino al febbraio del 1947 a causa delle sue precedenti simpatie per il regime. Non molti anni dopo muore la moglie Jeanne. Con grande scandalo per la morale comune intreccia in seguito una relazione con la giovanissima italo–brasiliana, Bruna Bianco. Va in televisione, declamando Omero agli italiani, i quali, finalmente, si accorgono del fascino di questo artista di parole mai vuote.
Nel 1969, Ungaretti pubblica la raccolta definitiva ‘Vita d’un uomo’. Muore a Milano nel 1970. Al suo funerale a Roma, nella Chiesa di San Lorenzo fuori le Mura, non partecipò alcuna rappresentanza ufficiale del Governo.
Assieme a Eugenio Montale (leggi Preferire i ragazzi che cercano, nelle pozzanghere, qualche sparuta anguilla. Eugenio Montale e la sua poesia), Ungaretti ha fatto scuola a una generazione intera di poeti. Fu il cantore dei luoghi. In questa composizione, intitolata ‘I fiumi’, con la quale ci congediamo, la sua storia tra il Nilo, l’Isonzo, il Serchio e la Senna fanno da contorno alle tappe della sua esistenza di sguardi, immensità, segreti, ferite, epifanie e meraviglie.
Il recupero del passato, in queste parole, scorre attraverso la memoria e il rapporto di armonia con il creato, in un tempo in cui stava vivendo la tragica esperienza bellica. Bagnandosi nell’Isonzo, Ungaretti entra in sintonia con l’universo. Ripensa così a tutto ciò che ha segnato il suo percorso fin lì, snocciolando la bellezza nell’uso delle parole come fossero le ultime cose rimaste nel mondo.
Un momento di eccezionale elevazione.
I fiumi
Mi tengo a quest’albero mutilato
Abbandonato in questa dolina
Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
In un’urna d’acqua
E come una reliquia
Ho riposato
L’Isonzo scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua
Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole
Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo
Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia
Ma quelle occulte
Mani
Che m’intridono
Mi regalano
La rara
Felicità
Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita
Questi sono
I miei fiumi
Questo è il Serchio
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.
Questo è il Nilo
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza
Nelle distese pianure
Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto
Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre
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