Giuseppe Prezzolini, il conservatore-anarchico che aveva capito bene gli italiani

Pubblicato: Sabato, 27 Gennaio 2018 - Fabrizio Giusti

prezzolinimamilioACCADDE OGGI – 27 gennaio 1882: la nascita di una delle personalità più 'scomode' e importanti del Novecento italiano

ilmamilio.it 

“Non c’è niente da fare: veniamo dal nulla, siamo nulla e andiamo verso il nulla”.

Giuseppe Prezzolini era uno scettico, ma non un pessimista. La linea è sottile, ma reale. Un cappello o un basco in testa, una vena letteraria raffinata, una cultura aperta, un pensiero impossibile da fermare, irreggimentare, pilotare. Lui, che dava del tu a Benito Mussolini, non fu mai fascista e non vedeva in fondo nel fascismo una rivoluzione. Si distinse per carattere e tratto.

D’altronde la sua rivoluzione delle idee l’aveva già compiuta molto prima della Marcia su Roma, innescando quell’impetuoso rinnovamento della cultura italiana di inizio novecento grazie a “La Voce” (1908-1914) con Giovanni Papini, collega stimatissimo con il quale aveva già condiviso l’esperienza di “Leonardo”, la rivista che voleva indurre al risveglio la borghesia italiana. 

“Un gruppo di giovini, desiderosi di liberazione, vogliosi di universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale si sono raccolti in Firenze sotto il simbolico nome augurale di Leonardo per intensificare la propria esistenza, elevare il proprio pensiero, esaltare la propria arte – si leggeva nella missione - Nella vita son pagani e individualisti - amanti della bellezza, dell'intelligenza, adoratori della profonda natura e della vita piena, nemici di ogni forma di pecorismo nazareno e di servitù plebea. Nel pensiero son personalisti e idealisti, cioè superiori ad ogni sistema e ad ogni limite, convinti che ogni filosofia non è che un personal modo di vita - negatori di ogni altra esistenza di fuor dal pensiero. Nell'arte amano la trasfigurazione ideale della vita e ne combattono le forme inferiori, aspirano alla bellezza come suggestiva figurazione e rivelazione di una vita profonda e serena”.

Sono i sintomi della maturità che sfocerà, come accennato, ne “La Voce”, uno sforzo letterario che piaceva a Mussolini e Gramsci, dal futuro Paolo VI, all’epoca giovane seminarista, oppure da Giovanni Gronchi, futuro Presidente della repubblica e da Ferruccio Parri. Tutta una generazione - di origini cattoliche, socialiste, liberali e nazionaliste - si forma su quelle pagine. Parole sicuramente d’èlite, ma protagoniste dei movimenti di massa.

"Non promettiamo di essere dei geni – riflettevano da La Voce - di sviscerare il mistero del mondo e di determinare il preciso e quotidiano menù delle azioni che occorrono per diventare grandi uomini. Ma promettiamo di essere onesti e sinceri. Noi sentiamo fortemente l'eticità della vita intellettuale, e ci muove il vomito a vedere la miseria e l'angustia e il rivoltante traffico che si fa delle cose dello spirito. Sono queste le infinite forme d'arbitrio che intendiamo denunciare e combattere”. Ci scriveranno sopra Giovanni Papini, Gaetano Salvemini (che si dissociò dalla rivista nel periodo della guerra di Libia), Ardengo Soffici, Emilio Cecchi, Luigi Einaudi, Giovanni Gentile, Giuseppe Lombardo Radice, Roberto Longhi, Romolo Murri, Giani Stuparich, Sibilla Aleramo e Margherita Sarfatti. 

"L’Italia come oggi è non ci piace’, sottolineò un giorno Giovanni Amendola. Frase semplice, che riassumeva però tutte le tendenze dei giovani del momento, stanchi di un’Italia piccola che andava lentamente, che non mangiava, che emigrava. Prezzolini commentò questo sentimento come “il desiderio di essere più nazionali”.

Era figlio di genitori senesi, e nacque “per caso” a Perugia nel 1882. Una vita lunga un secolo. Giornalista, scrittore, editore, divulgatore in Italia di Stevenson e London. Ragazzo solitario, ereditò dal padre una somma tale da permettergli di non lavorare per alcuni anni. Con il tempo divenne schietto, irascibile, poco incline alle formalità. Tentò anche una conversione al cristianesimo, ma senza risultati. Si presentò volontario in guerra nel 1915, uscendone deluso. Fu nazionalista, ma non aveva in simpatia la retorica. Fu uno dei primi ad intuire l’ascesa di Mussolini e la durata del fascismo. Fu proprio lui che telegrafò al futuro Duce, al momento dell’espulsione al Psi, scrivendogli: “Partito socialista ti espelle, Italia ti accoglie”. 

Nel 1925 Prezzolini lasciò l’Italia, nominato rappresentante per l'Italia presso l'«Istituto Internazionale della Cooperazione Intellettuale», emanazione della Società delle Nazioni (l'antesignana dell'ONU). Direzione: Parigi. Senza tener molto conto della contrarietà degli ambienti del governo, ad un passo dall'essere Regime, dittatura.

Ebbe un amico fraterno, Giovanni Papini, fondatore di “Lacerba” e con lui di “Leonardo” e “La Voce”. Tutti i concetti di pensiero e azione, politica e morale, critica e arte, si svilupparono in tal contesto di intelligenze, facendo scoprire importanti autori. Ebbe anche un riferimento rispettato: Benedetto Croce, con il quale mantenne rapporti amichevoli anche quando non era facile. Di nemici se ne attirò parecchi. Due su tutti: Giolitti e D’Annunzio. Futurismo e Fascismo lo affascinarono, ma contenendo il rapporto con la politica. Non è un caso che venne sempre visto di sguincio da fascisti e antifascisti. In questi anticipò altri due geni del giornalismo e della scrittura. Uno tra tutti: Leo Longanesi (leggi L’intelligenza irrequieta, scomoda e inafferrabile di Leo Longanesi). Teorizzò, proprio in quanto battitore libero (persino anarchico nel rifiuto di un complesso culturale di uomini schierati), la 'Società degli apoti', di “coloro che non se la bevono”. Un intuizione attualissima, oggi che tutti  sono (o sembrano) uguali.

Asciutto, essenziale, piacque egli Stati Uniti. Collaborò poi a “Il Borghese”, intuizione fondamentale di quegli anni per una certa Italia. Dopo il rientro nella Penisola, se ne allontanò di nuovo nel 1968 preferendogli la Svizzera.

Riuscì a vivere un secolo. Il secolo breve. Quello delle avanguardie artistiche e delle rivoluzioni, di ben due guerre mondiali, tra ritorni ed esili. Un dimenticato, in fondo, ma di straordinaria importanza per la cultura italiana. Un’intelligenza scomoda, un anarchico-conservatore solitario, che visse più vite in libertà, senza farsi ingabbiare o isolare. Conosceva gli italiani.

“I cittadini italiani – scrisse - si dividono in due categorie: i furbi e i fessi. L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi che non fanno nulla, spendono e se la godono. L’Italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino all’ammirazione di chi se ne serve a suo danno. Il furbo è in alto in Italia non soltanto per la propria furbizia, ma per la reverenza che l’italiano in generale ha della furbizia stessa, alla quale principalmente fa appello per la riscossa e per la vendetta. Nella famiglia, nella scuola, nelle carriere, l’esempio e la dottrina corrente – che non si trova nei libri – insegnano i sistemi della furbizia. La vittima si lamenta della furbizia che l’ha colpita, ma in cuor suo si ripromette di imparare la lezione per un’altra occasione. La diffidenza degli umili che si riscontra in quasi tutta l’Italia, è appunto l’effetto di un secolare dominio dei furbi, contro i quali la corbelleria dei più si è andata corazzando di una corteccia di silenzio e di ottuso sospetto, non sufficiente, però, a porli al riparo delle sempre nuove scaltrezze di quelli”.

Morì il 14 luglio del 1982 a Lugano. Ci era arrivato un po' per stanchezza e perché non sopportava – per sua stessa ammissione - la burocrazia, la corruzione, la furbizia, la 'scioperomania', l'eccesso di stato sociale, la mediocrità della classe politica. Tra le sue opere maggiori sono da ricordare La cultura italianaL'italiano inutile, il Manifesto dei conservatori e quattro biografie: Giovanni Papini, Benito Mussolini, Giovanni Amendola e Benedetto Croce.

Era avanti. A tutti. Aveva compreso le derive umane e politiche di una nazione. Non si fece ubriacare mai dagli ‘ismi’ e delle mode. Un Maestro.