26 Aprile 1979: la Rai trasmette "Processo per stupro". Quella terribile verità sbattuta in faccia agli italiani

Pubblicato: Lunedì, 24 Aprile 2023 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Il documentario  sul caso di una ragazza violentata da un gruppo di uomini in cui emersero tutti i preconcetti di una società maschilista ed arretrata

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Fino alla fine degli anni settanta lo stupro, in Italia, nonostante tutti i progressi sociali ottenuti, era considerato un “delitto contro la moralità pubblica e il buon costume”. Non un abominio, dunque, contro le donne e gli esseri umani oggetto della brutalità altrui - attenzione - ma un reato contro la morale o poco di più in una nazione in cui era ancora in vigore il cosiddetto “delitto d’onore” (abrogato solamente nel 1981).

A cambiare lo stato delle cose, anche sul piano giuridico, giunsero gradualmente una serie di proposte, aiutate e sostenute soprattutto dalla mobilitazione studentesca, della politica, da un grande dibattito nella società introdotto dai movimenti femministi. In tal contesto storico si inserì anche un documentario di forte impatto, ''Processo per stupro'', diretto da Loredana Dordi. Fu la prima testimonianza visiva di un processo incentrato su un caso di violazione carnale. La trasmissione ebbe una clamorosa visibilità nell'opinione pubblica e scatenò un dibattito determinante per una nazione ferma a criteri di giudizio arcaici e arretrati culturalmente.

L'idea di ''Processo per stupro'' nacque in seguito ad un Convegno Internazionale organizzato dal movimento femminista nell'aprile del 1978 nella ''Casa delle donne'' in via del Governo vecchio a Roma. In quell'occasione emerse che molto spesso, quando aveva luogo un processo per una violenza sessuale, la vittima si trasformava spesso in imputata.

Il programma venne mandato in onda per la prima volta il 26 aprile 1979, alle ore 22, e fu seguito da circa tre milioni di spettatori. Conseguentemente all'incredibile successo di ''seconda serata'', fu ritrasmesso in prima serata nell'ottobre dello stesso anno, con un pubblico che superò i nove milioni di contatti. In seguito fu insignito del ‘Prix Italia’ e presentato al Festival di Berlino. Una copia è attualmente compresa negli archivi del MOMA di New York.

Le telecamere vennero installate all’interno del tribunale di Latina, dove si tenevano le udienze del processo per uno stupro avvenuto nel 1977. Il documentario fece emergere in particolare la passione e la partecipazione dell'avvocato Tina Lagostena Bassi (nella foto in alto), difensore di parte civile. Le immagini certificarono, in tutta la loro crudezza, l’atteggiamento degli avvocati difensori degli accusati, e la loro linea fondata anche sui dettagli della violenza e sulla vita privata della vittima. Un tentativo di ridimensionamento che puntava, agli occhi della critica, a minare la credibilità della vittima fino a trasformarla quasi in imputata.

Fu proprio Tina Lagostena Bassi, nella sua arringa finale, che senti la necessità di ricordare che era venuta in quell'aula per difendere una donna che era stata abusata. Fu uno dei momenti più alti in cui si manifestò la volontà delle donne di poter essere libere e di poter agire senza i condizionamenti di una società in cui, come dimostrò l'incredibile dibattimento, si palesavano diversi ed odiosi stereotipi nonostante tutte le battaglie promosse negli anni settanta.

Tina Lagostena Bassi affermò: “Devo purtroppo ancora prendere atto, e mi scusino i colleghi, che la difesa dei violentatori considera le donne come soli oggetti, con il massimo disprezzo. E vi assicuro: questo è l’ennesimo processo che io faccio ed è come al solito la solita difesa che io sento”. “Io mi auguro di riuscire ad avere la forza di sentirli, non sempre ce l’ho, lo confesso – proseguì - e mi auguro di non dovermi vergognare come donna e come avvocato per la toga che tutti insieme portiamo. La difesa è sacra ed inviolabile, è vero, ma nessuno di noi avvocati si sognerebbe di impostare una difesa per rapina così come si imposta un processo per violenza carnale. Nessun avvocato, nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrino in una gioielleria e portano vie le gioie, si sognerebbe di cominciare la difesa dicendo che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, che in fondo ha commesso reati di ricettazione, che è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse. Ecco: nessuno si sognerebbe di fare una difesa di questo genere, infangando la parte lesa soltanto. Se invece che quattro oggetti d’oro “l’oggetto” del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi constante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna”. “E scusatemi la franchezza – sottolineò - se si fa così è solidarietà maschilista perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale”. “Una donna – concluse - ha diritto di essere quello che vuole e io non sono il difensore della donna Fiorella, io sono l’accusatore di un certo modo di fare i processi per violenza. Ed è una cosa diversa”.

Ancora oggi migliaia di donne, in Italia, sono oggetto di violenza psicologica o fisica. Ogni anno a centinaia vengono uccise da un uomo. I cosiddetti ''femminicidi'' fanno parte della cronaca quotidiana e rischiano di diventare un triste rito a cui abituarsi. A distanza di oltre quaranta anni da ''Processo allo stupro'' molto è cambiato nella legislazione a tutela delle donne, ma a volte sembra ancora apparire all'orizzonte quella stessa mentalità discriminatoria che pone la donna come qualcosa da giudicare, anziché da tutelare. E' il segno di una società che deve ancora compiere totalmente la sua fase di maturazione in questo ambito.

''Processo per stupro'' rimane dunque un riferimento storico fondamentale per capire cosa eravamo e cosa siamo diventati, ma soprattutto per comprendere in quale direzione continuare a dirigersi per definire una società in cui il rispetto e la condanna della violenza siano conquiste inalienabili.