Febbraio 1949: parte il piano ‘INA-Casa’. I 15 anni che costruirono un'altra Italia

Pubblicato: Venerdì, 05 Febbraio 2021 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI (attualità) - Il primo cantiere a Colleferro, poi alloggi per 350mila famiglie, migliaia di posti di lavoro, una nuova idea di vita comune. Un progetto di visione per la nuova Italia, mai più ripetuto.

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Dal 1949 al 1963 l’Italia fu al centro di un modello di crescita edilizia, ma anche sociale, occupazionale, morale ed economica. Era il piano ‘Ina Casa’, o Piano Fanfani. Approvato il 24 febbraio 1949, dopo un iter parlamentare di otto mesi, prese avvio già il 7 luglio dello stesso anno con il primo cantiere a Colleferro.

STORIA DI UN’IDEA EPOCALE - Nel febbraio 1949 il Parlamento italiano approvò il progetto di legge ‘Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori’, con il quale si sarebbe dato avvio alla realizzazione di alloggi economici.

I quattordici anni di attività del piano rappresentano una fase significativa della politica economica del dopoguerra. Le sue realizzazioni, alloggi moderni posti entro nuovi nuclei urbani o quartieri, offrirono la possibilità a migliaia di famiglie di migliorare le proprie condizioni abitative. Per urbanisti e architetti italiani, inoltre, i nuovi insediamenti furono una prima vera opportunità per dare forma alla propria creatività, in un contesto immobiliare che si stava già espandendo ovunque.

Il 31 ottobre 1949 erano già in funzione in diverse località dell'Italia oltre 650 abitazioni. A pieno ritmo, si producevano settimanalmente 2800 vani, riuscendo a dare una casa a circa 560 famiglie ogni sette giorni. Fino al 1962, i 20mila cantieri diffusi  nelle grandi città, come nei piccoli centri, offriranno un posto di lavoro ogni anno a 40mila lavoratori edili. Dei 17 mila architetti e ingegneri italiani attivi in quegli anni, un terzo fu coinvolto nel piano.

Il progetto Ina-Casa nacque da storie differenti di un’Italia postbellica: quella di Amintore Fanfani e Filiberto Guala, di Arnaldo Foschini e Corrado Bozzoni, ai principali responsabili della legge e della sua attuazione. Per molti storici fu anche un esempio di ‘cristianesimo sociale’, di socialismo, comunitarismo, collettivismo.

Al centro del Piano ci furono alcuni principi: la progettazione di esterno ed interno, l’importanza dell’integrazione tra casa e servizi, la centralità dello spazio pubblico, dei luoghi di incontro, l’idea di cittadinanza oltre allo scopo residenziale. Una visione, questa, che coinvolse molti delle migliori menti dell’epoca e che si tradusse in quartieri che ancora oggi si distinguono nella città.

Ina Casa venne finanziata attraverso una trattenuta, dello 0,60 di tutti i lavoratori e dell’1,20 dei datori di lavoro, oltre che attraverso investimenti dello Stato. Una partecipazione collettiva a favore di chi meno aveva, per non lasciare intere masse di persone indietro nell'epoca dello sviluppo e della ricostruzione. Persino il Meridione e le isole videro, sull’intero quindicennio, investimenti che sfiorarono il sessanta per cento di quelli del Nord.

In realtà il piano assolse un’altra funzione sociale, ovvero portare via dalla miseria milioni di contadini italiani che stavano passando dai campi alle fabbriche. C’era, in tutto questo, anche un progetto idealistico che andava al di là della materia: creare nuovi cantieri per «ricostruire le case ma anche gli uomini», come recitava una voce fuori campo che accompagnava le immagini delle realizzazioni.

Grazie ai circa due milioni di vani realizzati, oltre 350mila famiglie italiane migliorarono le proprie condizioni abitative. Il 40% dei nuclei familiari, prima di trasferirsi in quelle case, abitava in cantine, baracche, sottoscala. Il 17% in coabitazione con altre famiglie. Tra loro i migranti dalle campagne, del sud, i profughi dall’Istria e dalla Dalmazia.

Edifici, spazi verdi e pubblici, asili, scuole, chiese. Questo era il Piano Ina Casa, che formò, al suo interno, nelle soluzioni più riuscite, una comunità di cittadini, condivisione, attrezzature collettive. Un contesto in cui il quartiere sembrava assumere ancora un ruolo di ‘ricostruzione’ sociale e morale dell’Italia del dopoguerra.

Il valore di quell’esperienza è ancora oggi nei luoghi realizzati, spazi che sono stati accerchiati spesso da quella confusa crescita urbana che dagli anni settanta in poi ha assunto criteri mostruosi, dispersivi, isolati, senza armonia con il paesaggio e la qualità della vita. Ma quei progetti sussistono a ricordarci che c’è stata anche una nazione che aveva un volto e un valore ben riconoscibile.