Abebe Bikila, correre a piedi nudi dentro la storia dello sport e dell'umanità

Pubblicato: Venerdì, 25 Ottobre 2019 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI (cronaca) - Quella gara del 10 Settembre 1960, entrata nella leggenda. L'atleta morì il 25 ottobre del 1973

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C’è una foto che racconta ed emana storia più di quanto un uomo, con le sue parole, possa fare. Immortala un gruppo persone che porta in trionfo un atleta di colore, proveniente da terre lontane. Accadde il 10 settembre del 1960.  Le porte di Roma, i ruderi dell'Appia, le pietre di una vecchia civiltà, si illuminarono per lui, per il suo moto andante, per la sua sua corsa a piedi nudi, incessante e solitaria.

Accadde di notte, in una Roma indimenticabile. Abebe Bikila vinse con le braccia alzate sotto l'Arco di Costantino, imponendosi nella maratona delle prime Olimpiadi dell'era moderna. L’atleta si mise a saltellare un po' sotto l’arco dell’imperatore, fece due piegamenti. Poi arrivò il momento dell’applauso e della premiazione tra l’entusiasmo dei presenti.

Bikila era fino a quel momento uno sconosciuto. Aveva 28 anni e faceva il poliziotto. Un uomo d'ordine, dentro e fuori. Una persona con una dignità rara ed un coraggio notevole. Era nato in un piccolo villaggio dell'Etiopia, il 7 agosto 1932. Nel 1960 prestava servizio nella guardia imperiale. Correva perché andare veloce era un modo per sentirsi liberi. Fu scoperto dall'allenatore finladese Onni Niskanen, chiamato a scoprire talenti sportivi dall'Imperatore etiope Haile Salassie in persona.

Baciato dal destino, Abebe andò alle Olimpiadi di Roma sostituendo Wami Biratu, infortunatosi durante una partita di calcio. Così, per lo scherzo della storia e delle coincidenze, questo giovane etiope si ritrovò a correre la maratona per le vie della capitale della nazione che aveva colonizzato il suo popolo fino a pochi anni prima. Compì la sua impresa senza scarpe, a piedi nudi. Non lo fece per apparire o per chissà quale motivazione legata al suo popolo, ma semplicemente perché le sue scarpe nuove, fornite dall'Adidas, gli stavano strette. Con il suo numero 11 aggrappato sulla canottiera verde conquistò la prima medaglia d'oro della storia dell'Africa nera, aprendo una strada percorsa da decine di atleti fino ai giorni nostri.

Abebe divenne un eroe nazionale, un simbolo del riscatto africano. Quattro anni dopo vinse nuovamente la maratona olimpica di Tokyo. Partecipò, ritirandosi dopo 17 chilometri, anche alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968. Un anno dopo fu coinvolto in un incidente automobilistico ad Addis Abeba, rimanendo paralizzato dal torace in giù. "Gli uomini di successo incontrano la tragedia. E' stato il volere di Dio - commentò - se ho vinto le Olimpiadi, ed è stato il volere di Dio a farmi incontrare l'incidente. Ho accettato quelle vittorie come accetto questa tragedia. Devo accettare entrambe le circostanze come avvenimenti della vita e vivere felicemente".

Non riuscì più a camminare, ma indomito continuò a gareggiare nel tiro con l'arco, nel ping pong, in una gara di corsa di slitte, fino alla partecipazione nelle Paralimpiadi di Heidelberg del 1972. Morì l'anno successivo per un'emorragia cerebrale, il 25 ottobre del 1973.

Aveva solo 41 anni. Il suo nome oggi è ancora scritto a caratteri cubitali nella storia dello sport mondiale.