21 Settembre 1990: l'uccisione di Rosario Livatino, il giudice libero e Beato

Pubblicato: Giovedì, 21 Settembre 2023 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI - La sua uccisione ad opera della ‘Stidda’, il 21 settembre 1990

ilmamilio.it 

Nei Bar italiani, in quel fine estate del 1990, non si erano ancora placati i commenti sui Mondiali di calcio giocati tra le mura amiche. La mitica nazionale di Azeglio Vicini poteva vincerli, quei campionati del mondo, ma si fermò in semifinale nella notte stregata di Napoli, al San Paolo, contro l’Argentina di Maradona e Caniggia. “Ah, se Zenga non fosse uscito in quella maniera...”. “Ah, quei rigori…”. Storie di calcio e di popolo.

In quei giorni, come da diverso tempo ormai, il giudice Rosario Livatino, prima di andare in ufficio al Palazzo di Giustizia di Agrigento, si fermava ogni mattina a pregare nella Chiesa di San Giuseppe. Poi iniziava la sua giornata. Lunga, laboriosa. Era timido, ma preparato e innovativo nelle sue intuizioni, soprartutto sulle indagini patrimoniali.

Era privo di scorta e senza protezione. Venne ucciso il 21 settembre del 1990 sulla SS 640 mentre si recava in tribunale, per mano di quattro sicari della ‘Stidda’ agrigentina, organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa nostra. Livatino era a bordo di una vecchia Ford Fiesta color amaranto. Tentò la fuga a piedi, attraverso i campi limitrofi. Già ferito da un colpo ad una spalla, fu raggiunto e freddato definitivamente da altre revolverate.

Era nato a Canicattì nel 1952 e aveva conseguito la maturità presso il Liceo classico Ugo Foscolo. Figlio unico, iscritto alla Facoltà di giurisprudenza di Palermo, si era laureato nel 1975. Prestato servizio come vicedirettore in prova presso l'Ufficio del Registro di Agrigento, era entrato in magistratura presso il Tribunale di Caltanissetta.

Dopo essere stato nominato sostituto procuratore presso il tribunale di Agrigento, dieci anni dopo assunse il ruolo di giudice a latere. Nella sua attività si occupò di quella che sarebbe poi diventata la Tangentopoli siciliana, mettendo a segno numerosi colpi nei confronti della mafia attraverso lo strumento della confisca dei beni. Fu questo impegno a causarne la morte. Una vittima sacrificale, che Papa Giovanni Paolo II definì ''martire della giustizia ed indirettamente della fede''.

La sua figura è stata ricordata nel film di Alessandro Di Robilant ne ''Il giudice ragazzino'', uscito nel 1994. 

Il 19 luglio 2011 è stato firmato dall'arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro, il decreto per l'avvio del processo diocesano di beatificazione, aperto ufficialmente il 21 settembre 2011 nella chiesa di San Domenico di Canicattì.

Durante la fase diocesana hanno testimoniato 45 persone sulla vita e la santità di Rosario Livatino, e tra questi anche Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer mafiosi del giudice.

Il 6 settembre 2018 venne annunciata la chiusura del processo diocesano.

Il 21 dicembre 2020 papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle cause dei santi a promulgare il decreto riguardante il martirio In odium fidei, aprendo la strada alla sua beatificazione.  La cerimonia di beatificazione si è svolta il 9 maggio 2021 nella Cattedrale di Agrigento, nell'anniversario della visita apostolica di papa Giovanni Paolo II nella città.  La camicia portata da Livatino il giorno della morte, e rimasta intrisa di sangue, è divenuta una reliquia.

Il giudice, un giorno, aprendosi ad una riflessione sulla vita, disse: ''Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili''. La dignità, innanzitutto. Lontano dai compromessi.

Livatino aveva un alto senso del dovere, donava agli altri e si donò agli altri. Un cristiano, ma soprattutto un uomo di valore. Il suo fu uno dei delitti dell’inizio degli anni novanta che culminarono con le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Una lunga scia di sangue che era cominciata già alla fine degli anni settanta e continuava a colpire, nella guerra di mafia e tra le mafie, poliziotti, giudici, carabinieri, cittadini innocenti.

Un’epoca di delitti, ma anche di numerosi esempi civili. Uno di questi fu quello di Pietro Ivano Nava, un ex agente di commercio, originario del bergamasco, che fu testimone oculare dell'omicidio del giudice Livatino. Rese subito testimonianza alla polizia di quanto avvenne. Le sue dichiarazioni furono fondamentali per individuare gli esecutori del delitto. Divenne simbolo del dovere civico di denuncia del fenomeno mafioso. Non esisteva ancora in Italia alcun programma di protezione per i testimoni a rischio. Perse il lavoro, subì l’isolamento. Fu costretto a cambiare più volte residenza, scomparire nel nulla e ad emigrare all’estero. 

Un giorno, nel corso di una relazione, Livatino espresse queste parole: "Il Giudice deve offrire di sé stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile; l’immagine di un uomo capace di condannare ma anche di capire; solo così egli potrà essere accettato dalla società: questo e solo questo è il Giudice di ogni tempo. Se egli rimarrà sempre libero ed indipendente si mostrerà degno della sua funzione, se si manterrà integro ed imparziale non tradirà mai il suo mandato".

Una testimonianza ancora attuale.