Il Generale abbandonato dallo Stato e ucciso dalla Mafia: Carlo Alberto Dalla Chiesa - VIDEO

Pubblicato: Domenica, 03 Settembre 2017 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Il 3 Settembre 1982 luccisione del Prefetto di Palermo

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Carlo Alberto Dalla Chiesa, nell'estate del 1982, avvertiva il rischio. Attorno alla sua figura non esisteva la protezione dovuta da parte dello Stato. Lo avevo capito sin dall'inizio. Giunto a Palermo da Napoli in nave, per ricoprire il ruolo di Prefetto, non trovò nessuno ad attenderlo.

Dalla Chiesa cercava appoggi e sostegni al telefono, si sentiva sbattere in faccia porte che si erano spalancate all’epoca della sua riuscita lotta al terrorismo. Di questo sentore, se ne ha perfettamente traccia nella sua ultima intervista a Giorgio Bocca. Era l’isolamento che precedeva la morte, come spesso accadeva nei delitti di Mafia di quegli anni.

Il 3 Settembre, alle ore 21:15, la A112 sulla quale viaggia, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, è affiancata in via Isidoro Carini a Palermo da una BMW dalla quale partirono alcune raffiche di Kalashnikov AK-47. La morte fu immediata per entrambi. L'agente di Polizia Domenico Russo, scorta del prefetto, gravemente ferito, morì il 15 settembre.

Per gli omicidi sono stati condannati all'ergastolo come mandanti i vertici di Cosa Nostra, ovvero Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Nel 2002 sono stati condannati in primo grado, quali esecutori materiali dell'attentato, Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia, entrambi all'ergastolo, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci a 14 anni di reclusione ciascuno.

Nella stessa sentenza si legge: "Si può senz'altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d'ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all'interno delle stesse istituzioni, all'eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.

Il diario di Dalla Chiesa racconta che nell'aprile 1982 ebbe un colloquio con Giulio Andreotti, nel quale gli disse che non avrebbe avuto riguardi per quella parte di elettorato mafioso alla quale attingevano gli uomini della sua corrente. Successivamente, definì la corrente andreottiana “la famiglia politica più inquinata del luogo”. Andreotti si difese nella circostanza, ma anni dopo, nella sentenza di Cassazione che confermò l’assoluzione nel processo per mafia, i magistrati annotarono i rapporti del più volte Presidente del Consiglio e Ministro della Repubblica, prima del 1980, con il boss Stefano Bontade, con Vito Ciancimino e i cugini Nino e Ignazio Salvo

Una settimana dopo quel 3 settembre, Andreotti venne intervistato alla festa dell’Amicizia della Democrazia cristiana da Giampaolo Pansa. Il giornalista gli domandò perché non fosse andato ai funerali di Dalla Chiesa. “Preferisco andare ai battesimi”, rispose. Su queste circostanze, ancor oggi esiste un approfondito dibattito tra innocentisti e accusatori del politico italiano più potente, famoso e duraturo del dopoguerra.

UNA VITA DI AZIONE PER LO STATO - Una vita per lo Stato, quella di Dalla Chiesa, sin da giovane, quando fu destinato, dopo aver fatto parte della guerra di Liberazione e assunto altri incarichi, al Comando Compagnia di Casoria nelle operazioni di lotta al banditismo, e poi in Sicilia per eliminare le bande di criminali nell'isola. Qui comandò il Gruppo Squadriglie di Corleone, quella stessa città che poi divenne protagonista di una nuova ascesa mafiosa soprattutto tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta. Da Capitano, indagò sull’omicidio, del sindacalista socialista Placido Rizzotto, giungendo a incriminare l'allora emergente boss della mafia Luciano Liggio. Tornò in Sicilia dal 1966 al 1973, con il grado di colonnello, al comando della Legione carabinieri di Palermo. Nel 1969 riesplose in maniera evidente lo scontro interno tra le famiglie mafiose con la Strage di Viale Lazio, nella quale perse la vita il boss Michele Cavataio. Dalla Chiesa intuì la situazione che andava configurandosi, con scontri violenti per giungere al potere tra elementi mafiosi di una nuova generazione, pronti a lasciare sulla strada cadaveri eccellenti. Nel 1970 svolse indagini sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro e sull'omicidio del procuratore capo della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione.

LA LOTTA ALLE BRIGATE ROSSE - Poi si trovò a dover combattere le Brigate Rosse. Utilizzò i metodi che già aveva sperimentato in Sicilia contro le organizzazioni mafiose, infiltrando alcuni uomini all'interno dei gruppi terroristici, al fine di conoscere i loro schemi di potere o equilibrio interno. Allo stesso tempo fu uomo d’azione e risoluto, prendendosi tutti i rischi e le responsabilità de caso. Ad Alessandria sedò una rivolta dei detenuti, guidata dal gruppo Pantere Rosse, che aveva preso degli ostaggi. L’ intervento si concluse con l'uccisione di due detenuti, due agenti di custodia, del medico del carcere, di un insegnante e di un'assistente sociale. Siamo agli albori del 'Nucleo Speciale Antiterrorismo', con base a Torino. Riuscì a catturare a Pinerolo Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco e fondatori delle Brigate Rosse, grazie anche alla fondamentale collaborazione di Silvano Girotto, detto "Frate mitra". Intervenne per la liberare Vittorio Vallarino Gancia, rapito dalle BR, ma nel corso dell'azione morirono l'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso e il capo del nucleo brigatista Margherita Cagol. Nonostante i successi conseguiti, nel 1976 il Nucleo Antiterrorismo venne sciolto a seguito delle critiche ai metodi utilizzati nell'infiltrazione degli agenti tra i brigatisti, sui modi e sui tempi di azione.

Fu solo in seguito al delitto di Aldo Moro e della sua scorta che fu nominato Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo, con poteri speciali per diretta determinazione governativa. La svolta, però, arrivò con le rivelazioni del primo pentito dell’organizzazione, Patrizio Peci. Pochi giorni si attuò un’azione militare che si concluse con un violento conflitto a fuoco a Via Fracchia a Genova, da cui era partito il commando che aveva ucciso il coraggioso sindacalista Guido Rossa, che provocò la morte di quattro brigatisti presenti (tre militanti clandestini delle colonne genovese e torinese e la giovane proprietaria dell'appartamento), oltre al ferimento del maresciallo dei carabinieri Rinaldo Benà. Le modalità dell'irruzione suscitarono polemiche e critiche, ma ebbero conseguenze decisive a Genova e provocarono il rapido collasso dell’organizzazione brigatista. Per tutta risposta a Patrizio Peci le Br uccisero un fratello, Roberto, processandolo per tradimento e attuando così una vendetta trasversale spietata.

PALERMO, NELLA SOLITUDINE - Nel 1982 Dalla Chiesa viene nominato dal Consiglio dei Ministri prefetto di Palermo. Inizialmente si dimostrò perplesso su tale nomina, ma poi venne convinto dal ministro Virginio Rognoni, il quale gli promise poteri fuori dall'ordinario per contrastare la guerra tra le cosche che insanguinava l'isola. Ma non andò come si ipotizzava, tanto che Dalla Chiesa espresse al giornalista Giorgio Bocca, nella sua ultima intervista, parte della sua delusione. Si arrivò così alla tragica morte.

Nell'omelia, il cardinale Pappalardo pronunciò una citazione di Tito Livio: “Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo”. La frase, mutuata dal “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” faceva riferimento alla richiesta d’aiuto che Sagunto, città romana in terra spagnola, faceva alla capitale dell’Impero. A Roma si discusse molto se era opportuno o no inviare rinforzi fino a che i cartaginesi di Annibale conquistarono la città. Una metafora azzeccata, perché gli assassini di Dalla Chiesa imperversarono ancora per altri dieci anni, fino all’apice delle bombe e degli attentati tra il 1992 e il 1993 e la reazione dello Stato che fino ad allora era stato persino complice, nelle sue parti deteriori, di questi poteri criminali.

“Certe cose non si fanno per coraggio – affermò il Generale - si fanno solo per guardare più serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei nostri figli”.

Il suo ricordo è ancora sinonimo di coraggio, legalità, dovere. Valori imprescindibili nella crescita morale di ogni nazione.