La fine di un mondo tra conflitti interiori e due guerre. Thomas Mann e la sua narrazione immortale

Pubblicato: Sabato, 12 Agosto 2017 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Il 12 Agosto 1955 muore lo scrittore de “I Buddenbrook’ e ‘La montagna incantata’. Un gigante del Novecento letterario

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Quando morì, il 12 Agosto del 1955, a Kilchberg, vicino Zurigo, Thomas Mann si era stabilito in Svizzera da pochi anni.

In Germania, pur non essendosi parzialmente riappacificato con la sua terra natia, non era più voluto tornare. La sua ultima fatica letteraria, Bekenntnisse des Hochstaplers Felix Krull (Le confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull), giunse incompiuta. L’aveva cominciata nel lontano 1910, in un altro periodo della sua storia e del mondo. Quasi la chiusura di un cerchio, se si pensa che l’ultimo viaggio di Mann in Germania era stato a Lubecca, dove era cresciuto e dove gli era stata conferito il titolo di Dottore Honoris Causa. L’ultimo approdo e l’ultimo riconoscimento, dove tutto era cominciato.

Thomas Mann era nato in una ricca famiglia di mercanti. Cresciuto dentro una bella casa con un’infanzia felice, ereditò il contrasto caratteriale dei suoi genitori. Un padre rigoroso, una madre, di origine creola, da cui uscì quella sensibilità per la musica e l’arte che coinvolse lo stresso Thomas e sia il fratello maggiore Heinrich. Una famiglia diversa, borghese, ma anche creativa, di anime differenti: da un lato il commercio laborioso; dall'altro l’arte spinta verso lo spirito.

Mann ha descritto nei suoi romanzi la fine di un’epoca. La sua, principalmente. Come testimonia l’opera di maggior successo, scritta a soli 26 anni (in parte al terzo piano di Via Torre Argentina 34, a Roma): I Buddenbrook. Pubblicata nel 1901, è il racconto familiare che indagò sui pericoli che stavano aggredendo il sistema dei valori borghesi tradizionali in cui egli più credeva (gli farà seguito "Tristan", raccolta di sei novelle fra cui anche "Tonio Kroger").

‘Buddenbrook’ è la storia di una famiglia di commercianti e di borghesi dell'Ottocento di Lubecca (quindi autobiografica) nel corso di quattro generazioni. Una narrazione carica di valori e di certezze, che sarà sorpassata e distrutta da un'altra famiglia rivale e senza scrupoli. Il romanzo, di enorme successo, è stato visto con il tempo come la premonizione del tramonto della società liberale e conservatrice e dell'ascesa dell’autoritarismo. Nove anni dopo, in un intermezzo letterario in cui Mann sembra prendersi una pausa dopo tutto non troppo lontana dalla linea intrapresa agli albori del ‘secolo nuovo’, viene pubblicato "Altezza reale". Qui vige il contrasto e il legame tra la sovranità della corona e quella del denaro. Letto da tutti come una fiaba e la trasposizione letteraria di un difficile universo personale e solitario, “Altezza Reale” si addentra in aspetti economici particolari come la dissipazione del patrimonio boschivo, il disavanzo delle ferrovie, il debito pubblico, il disagio economico della popolazione o i capitali in fuga: una crisi che si risolve solo con l’acquisto di titoli di Stato da parte del miliardario statunitense, nell’allegoria di una società dove il popolo si rispecchia in una persona la cui vita è totalmente artefatta.

Il 1912 è l’anno di "La morte a Venezia", un romanzo breve destinato a suscitare grande scalpore a causa delle pulsioni sessuali contenute attorno a una storia di amore e morte che ancora una volta segna la metafora della decadenza estetica della vecchia Europa e di un contesto sociale preciso. In una città preda al colera, viene descritta l'alta società cosmopolita che alloggia nell’Hotel des Bains. La prima guerra mondiale si stava avvicinando, anche se non se ne sentiva l’odore del sangue. Si avvertiva, però, il declino di un’atmosfera, di una collettività che si stava radicalmente trasformando nella escursione dei suoi nuovi punti di riferimento per sopravvivere alla decomposizione (ci viene incontro il ‘Tramonto dell’Occidente’ di Spengler, del 1918).

‘Morte a Venezia’ è così anche un’ansiosa ricerca di qualcosa, di una bellezza che fu accusata, all'epoca, di scandalosa attrazione per un 'altro' impronunciabile. La bellezza del corpo efebico di Tadzio contro quella del corpo anziano vissuto con ripugnanza, dentro lo stereotipo del mito più classicheggiante, è il simbolo di una gioventù svanita, di impulsi omosessuali sconosciuti. Gustav Aschenbach, protagonista del racconto, nel tentativo di gettarsi dietro gli anni in più, giunge addirittura al punto di farsi tingere capelli e baffi e di truccarsi il viso. Segue Tadzio nella città oppressa da un caldo infernale. Fino alla spiaggia del Lido, dove muore osservando ancora il giovane che si dirige al largo del mare. Una trama scandalosa all'epoca e probabilmente anche oggi. Eppure raffinata, delicata, che vive sulla lama sottile della morbosità e della poesia. Vicende umane e storiche che attirarono un regista come Luchino Visconti, la cui idea di cinema, per lunghi anni, raccontò esattamente come Mann, la fine di un’epoca (Il Gattopardo, Morte a Venezia, Gruppo di famiglia in un interno) e di un'appartenenza di ceto che stava gradualmente e inesorabilmente scemando, evaporando.

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E’ con la "La montagna incantata”, straordinario ritratto della civiltà occidentale dei primi decenni del Novecento ambientato in un sanatorio svizzero, il Berghof di Davos, che Mann raggiunge livelli elevatissimi. Nella trama, il giovane Hans Castorp è il tipico tedesco nordico, un rispettabile borghese. Dentro al piccolo mondo del sanatorio il suo carattere si evolve, scoprendo la malattia, l’amore, la gioia di vivere, il pessimismo. Tra tali forze contrastanti, egli trova un suo equilibrio esistenziale all’interno di una routine quotidiana che alla fine, paradossalmente, si perde nella partecipazione della prima guerra mondiale. La fine della Bella Epoque e la dispersione del vecchio continente fanno da sfondo simbolico e immaginario a un momento letterario che spinse il germanista Ervino Pocar, il quale tradusse in seguito l’opera nel 1965, a scrivere. “La montagna incantata è un fedele, complesso, esauriente ritratto della civiltà occidentale dei primi decenni del Novecento e, nella sua incantata fusione di prosa e poesia, di vastità scientifica e di arte raffinata, è il libro, forse, più grandioso che sia stato scritto nella prima metà del secolo”.

‘La Montagna incantata’ esce nel 1924. In Europa Benito Mussolini ha già preso il potere, Adolf Hitler ci ha provato con il Putsch di Monaco (fallendo). Thomas Mann è già un colosso della letteratura. E non solo per lo stile, per le tematiche, per la produzione enorme di parole che spaziano nel racconto breve o nel romanzo fino al saggio politico, ma anche per lo spessore di intellettuale. In ‘Considerazioni di un impolitico’ (1918), in polemica contro i pacifisti e la democrazia occidentale moderna, abbraccia tesi neoconservatrici e di forte critica al sistema. Un’elaborazione nata tra il novembre del 1915 al marzo 1918, nella spirale degli anni della guerra mondiale, che lo stesso autore definì opera "di travaglio e di scandaglio faticoso e schietto di me stesso". Ma l’esaltazione di quella Patria (Heimat) e del Popolo (Volk), fu poi ridimensionata qualche tempo avanti, esprimendosi a favore della Repubblica di Weimar, parabola  che aprì le porte, con il suo fallimento, all’ascesa del nazionalsocialismo senza colpi di mano e con libere elezioni. Mann, appena due mesi prima, aveva tenuto una celebre conferenza all'Università di Monaco, dal titolo Dolore e grandezza di Richard Wagner. In quell'occasione lo scrittore aveva di fatto polemizzato con i legami tra il Nazismo e l'arte tedesca. Il convegno infastidì i nazionalisti. Mann si trasferì così all'estero, stabilendosi prima a Küsnacht (Zurigo), poi negli Usa, a Pacific Palisades (Los Angeles), località che già ospitava non pochi esuli tedeschi. Ciò significò l’inizio dell’esilio, che lo vide ricoprire l'incarico di docente nell'Università di Princeton.

Mann non amò mai il regime hitleriano. Lo rifiutò così tanto da portarlo alla pubblicazione della lettera consegnata il 31 gennaio del 1936 al quotidiano ‘Neue Zürcher Zeitung’. Fu la sua irrevocabile presa di posizione contro il nazismo. Una scelta travagliata, pagata a caro prezzo. I suoi libri furono messi all’indice. Il governo gli ritirò la laurea, la cittadinanza e gli confiscò tutti i beni mobili e immobili. Un Premio Nobel abiurato.

Con la fine della seconda guerra mondiale e la caduta del regime,  Mann non tornò in Germania. Non fece come quegli intellettuali che altrove ritornano da eroi. La divisione della sua nazione di origine nel 1949 e l'inizio della guerra fredda lo resero incerto. Non volle essere strumentalizzato dall'Est o dall’Ovest per scopi politici o di propaganda. Soffrì di questa divisione, e soffrì le critiche che si sollevarono contro di lui e che non gli perdonarono di aver attribuito una colpa collettiva dei tedeschi per quello che era successo tra il 1933 e il 1945. In Germania, però, Mann ritornò. Sia in quella orientale, che occidentale. "Non conosco due stati tedeschi, conosco solo la Germania", dirà. Una terra unificata, sogno possibile solo dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989. In un’Europa dove questo scrittore dalla mente vivace e tormentata ha ripreso il suo posto d’onore già da tempo. Studiato, celebrato, letto, amato, discusso.

Thomas Mann visse nella notte del vecchio continente e scrisse nell’arco di due esiti bellici mondiali catastrofici in cui la sua Patria uscì sconfitta e lacerata. Denunciò il declino e la follia, prima che trovasse la sua concreta realizzazione. Le sue parole servono per comprendere la prima metà del secolo scorso e percepire l'abbracciò che si consumò tra progresso, conquiste e mostruosità in un valzer di paradossi, luci ed orrori.

Dalla sua finestra si può ancora ammirare un’Europa scomparsa, per accorgersi di quella attuale. Ancora fragile e decadente, seppur in una cornice politica assolutamente diversa.