ACCADDE OGGI (attualità) – L'attentato davanti alla sua abitazione pose fine alla vita del Magistrato che con le sue intuizioni cambiò la strategia contro la mafia
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Il 29 luglio 1983 il giudice Rocco Chinnici sta uscendo di casa, in Via Pipitone Federico. Una Fiat 126 verde imbottita con 75 kg di tritolo esplode davanti alla sua abitazione.
Assieme al Magistrato, muoiono anche anche il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l'appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della scorta, e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico, Stefano Li Sacchi. L'unico superstite è Giovanni Paparcuri, l'autista.
Rocco Chinnici (Misilmeri, 19 gennaio 1925 – Palermo, 29 luglio 1983) era stato fino a quel momento un grande riferimento per la legalità. Era stato l'ideatore del "Pool Antimafia di Palermo", con il quale intendeva centralizzare e meglio organizzare le inchieste sulla mafia.
Alunno del liceo classico "Umberto I" di Palermo, conseguì la maturità nel 1943 e subito dopo si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza della città, dove si laureò nel 1947. Nel periodo degli studi, aveva lavorato all'ufficio del registro di Misilmeri, dove conobbe Agata Passalacqua, una giovane docente di scuola media con cui poi si sarebbe sposato.
Divenne magistrato nel 1952. Nel 1966 prese servizio come giudice istruttore a Palermo e quattro anni dopo, nel 1970, indagò sulla Strage di viale Lazio, occupandosi per la prima volta di mafia. Nel 1975 fu nominato Consigliere Istruttore aggiunto e poi magistrato di Cassazione e Consigliere Istruttore. Quando fu ucciso Cesare Terranova, venne nominato capo dell'Ufficio Istruzione.
Erano anni terribili, quelli. Nel 1980 furono uccisi Emanuele Basile, capitano dell'Arma dei Carabinieri, quindi il procuratore Gaetano Costa. Fu in questo periodo che a Chinnici venne l'idea di centralizzare tutte le indagini sulla criminalità in una struttura di coordinamento tra magistrati. Una svolta epocale.
Entrarono a far parte del Pool Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta.
Chinnici modificò il metodo di lavoro, centralizzando e organizzando meglio le inchieste. Istituì una struttura collaborativa di coordinamento tra i magistrati dello stesso ufficio. Il giudice comprese che se il lavoro solitario del magistrato comportava la dispersione delle singole delle conoscenze, con il rischio di smarrire, nel caso dell'omicidio del giudice stesso, anche il suo lavoro che aveva portato a determinate scoperte.
Si adoperò anche affinché venisse riconosciuta la specificità del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e per fare in modo che i giudici potessero indagare e intervenire sui patrimoni illeciti acquisiti dalla criminalità. Un lavoro che maturò grazie alla legge Rognoni-La Torre, del settembre 1982.
Chinnici fece qualcosa in più, e di notevole, sul piano culturale. Portò la propria testimonianza nelle scuole, dando così origine un’adeguata informazione tra i giovani. Parlare apertamente di criminalità organizzata alle nuove generazioni fu una vera e propria novità in quei temp, ove ancora l’omertà, il silenzio e la negazione dei fatti di mafia avvolgevano la società.
“Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai”, diceva. Aveva ragione.
Fu lo stesso Chinnici, proprio per questa sua attività, a raccontare le minacce di morte che riceveva. Il magistrato riportò anche il contenuto di una telefonata: “‘il nostro tribunale ha deciso che lei deve morire e l’ammazzeremo dovunque lei si trovi‘”.
Quando venne brutalmente assassinato stava indagando sui mandanti e gli esecutori dei delitti di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Non fece in tempo.
Resta il suo esempio e il suo valore. Incancellabile. Imprescindibile.