Raffaello, la grande arte di un genio formidabile e senza tempo

ACCADDE OGGI – Morì il 6 aprile del 1520. La sua opera è rimasta immortale

ilmamilio.it

di Fabrizio Giusti

Nella notte tra il 6 a 7 aprile 1520, dopo alcuni giorni di febbre acuta  e continua, Raffaello Sanzio si spense improvvisamente a Roma. Un evento che portò sgomento non solo nella comunità, ma anche nel Papa Leone X e tra tutti coloro che lo avevano stimato come uomo e come artista.

Celebrato come pittore, Raffaello era anche l’architetto della Fabbrica di San Pietro, l’unico che aveva dato l’impressione, attraverso le sue arti e le sue opere, di poter far rivivere d’incanto la Roma della gloria antica.

La sua sepoltura avvenne all’interno de Pantheon, monumento amato dall’artista come modello fondamentale. Fece qui restaurare un edicola, ove fu sepolto, in cui è collocata la Madonna del Sasso del suo amico Lorenzetto. L’Epitaffio recita: “Ille hic est Raphael, timuit quo sospite vinci rerum magna parens et moriente mori”. Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d’essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire.

La passione per l’antico è il filo rosso che attraversa tutta la carriera di Raffaello. Dagli inizi, ad Urbino, finendo per l’Umbria, le Marche, Siena, Firenze e culminando negli anni romani. Aveva un progetto, l’artista, a cui si deve anche la moderna concezione della conservazione del passato e dei suoi monumenti. Di questo si parla in un importante lettera, giunta fino a noi, a papa Leone X sulla necessità di proteggere le vestigia della Roma antica. Una preziosa testimonianza del crescente interesse e dell’amore per l’antichità che aveva colto il suo punto di maturazione durante il Rinascimento fino a cogliere una identità moderna. Siamo di fronte al primo tassello della storia della tutela del patrimonio artistico. Un momento luminoso di cultura e conoscenza. Un formidabile vincolo umano e intellettuale.

Nominato Sovrintendente alle antichità, Raffaello scrive al Pontefice: “Con grandissimo dolore, guardo alla Roma odierna come al cadavere, quasi, di una nobile patria”. Non distruggiamo “più nulla della bellezza che dai nostri avi abbiamo ereditato. Anzi tuteliamola e restauriamola con ogni diligente attenzione. Questo è il nostro grande, immane compito e intento che perseguiremo con ogni severità ed energia”.

Prima ancora, quando fu il tempo di Giulio II, uomo controcorrente che avviò una rivoluzione stilistica, Raffaello fu chiamato a partecipare a quel momento storico così straordinario. In un periodo in cui si dipinse la volta della Cappella Sistina, in cui si avviarono grandi lavori sulla Basilica di san Pietro, egli affrescò gli appartamenti privati del Papa. Lasciandoci una testimonianza incredibilmente fragorosa della sua raffinatezza e potenza pittorica.

Raffaello nella sua arte trasmetteva una enfasi clamorosa per l’arte classica. Papa Leone X, che stimava intensamente la sua arte, comprese, proprio come il predecessore Della Rovere, quanto il potere delle immagini potesse sostenere il pontificato. Il genio di Urbino  eccelleva nella pittura sacra, nella decorazione, nei cicli pittorici, nelle opere per i raffinati collezionisti. Un impegno enorme, coadiuvato da giovani allievi di talento che lo aiutarono.

Questo giovane sensibile fu anche il pittore delle donne. Ne estrapolava una bellezza mentale, filosofica che non sfidava l’inevitabile imperfezione del mondo, bensì la completava, la migliorava. Nei suoi ritratti, anche maschili, l’intenzione di trattenere l’essenza, ciò che non ha tempo, che non ha timore degli anni o dei secoli. Qualcosa di ipnotico, in certi casi.

Raffaello fu inoltre architetto geniale. Aveva studiato gli antichi edifici romani e da essi trasse spunto per un linguaggio innovativo che faceva sintesi nel disegno, nelle linee, nelle sfumature, nei decori. Ne sono rimaste tracce importantissime. 

Così era, questo pittore nato ad Urbino nel 1483, probabile allievo del padre Giovanni Santi e  del Perugino. Si affermò presto come uno degli artisti più rinomati, nonostante la giovane età. In quel periodo ad Urbino c’era una vera e propria scuola pittorica che lo influenzò. Gradualmente, però, si distacco da questi spunti per tendere a una maggiore autonomia, se così si può dire.

Alla fine del 1504 Raffaello si reca a Firenze con l’intento dichiarato di studiare le opere di Leonardo Da Vinci e di Michelangelo. Quella è una città in piena fibrillazione artistica. I due grandi geni del Rinascimento si trovarono nell’aprile del 1503 a doversi affrontare sul terreno della pittura, perché ricevettero entrambi dal gonfaloniere a vita di Firenze, Pier Soderini, l’incarico di affrescare due grandi pareti una accanto all’altra, nel salone del consiglio comunale a Palazzo Vecchio. Entrambi dovevano dipingere due vittorie fiorentine: Leonardo quella di Anghiari, Michelangelo quella di Càscina. Un’altra storia.

Raffaello osserva i maestri, si ispira alle lezioni quattrocentesche di Masaccio, di Donatello. Si allontana dal Perugino e si allunga oltre.  Poi è il momento di Roma, di una città che lo affascina profondamente. Qui gli viene affidato l’incarico di affrescare alcune pareti della Stanza della Segnatura. E dunque è il momento de La Teologia, il Peccato originale, la Giustizia, Il giudizio di Salomone, la Filosofia, la Contemplazione dell’Universo, la Poesia. Dopo la Cacciata di Eliodoro, del Miracolo della Messa di Bolsena, la liberazione di S. Pietro e il cielo, quella notte che sta declinando verso l’alba. Quella luna, che mai si era vista  nella pittura degli italiani: il primo vero notturno della storia dell’arte italiana.

 Nel 1514 dopo la morte del Bramante, che aveva già progettato San Pietro, il Papa lo nomina responsabile della cura dei lavori per la costruzione di San Pietro, lavorando inoltre alla realizzazione delle logge del palazzo Vaticano nel cortile di San Damasco. Di tanto che fece, molto è rimasto. Influenzando generazioni di artisti.

Morì a Roma, come detto, a soli 37 anni, all’apice della gloria. Nella camera dove giaceva il suo corpo fu appesa la Trasfigurazione e la visione di quel capolavoro generò ancora più sconforto per la sua perdita. Scrisse Vasari a tal proposito: “La quale opera, nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava”.

In lui un’ideale di bellezza immortale. Che ha ancora molto da insegnarci.

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