Afroamericani, ebrei e siciliani: i primi cento anni del Jazz. Beato chi ci è caduto dentro - VIDEO

Pubblicato: Lunedì, 31 Luglio 2017 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Quest’ anno viene celebrato il centenario della prima incisione di un genere che ha concepito tutto il panorama musicale moderno. Una rivoluzione multiculturale dove l’Italia ha ancora un ruolo di eccellenza

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Quella del Jazz è una storia che muove discograficamente i suoi primi passi mentre il mondo è insanguinato dal primo drammatico conflitto mondiale.

Una storia di vita, in una cornice di orrore. In trincea si sparava, ma altrove si suonava. A Chicago, ad esempio, al civico 318 della 31ª East, c’era lo Schiller’s Café. Al suo interno potevi ascoltare un gruppo arrivato da New Orleans: si chiama ‘Original Dixieland Jass Band’. Jass, con due esse. La ‘Victor Records’, quando predispose una serie di manifesti pubblicitari, non calcolò la goliardica reazione di qualcuno. Mani ignote si divertirono a cancellare la ‘J’ tramutando la parola in ‘ass’ che vuol dire ‘culo’. I manifesti furono rifatti, trasformando poi quella parola, ‘Jass’, in ‘Jazz’. Questo narra la leggenda più conosciuta e così è divertente tenersela. In fondo il codice identificativo di un’invenzione che ha sconvolto il mondo è meglio che non abbia origini certe e precise neanche nell'etichetta, nella forma.

Il leader della ‘Original Dixieland’ è Johnny Stein, batterista, ma c’è anche il figlio di un ciabattino di Salaparuta (caporale trombettiere di La Marmora a Porta Pia), ovvero James “Nick” La Rocca. Il complesso suona una musica squillante, allegra, tutta nuova. Poi un giorno in quel complesso gli ‘italiani’ diventarono due, con l’ingresso del batterista Tony Sbarbaro e allora il discorso si fece più interessante, visto da questa parte, da quello della penisola lontana che guardava all’epoca l’oltreoceano come una opportunità per cambiare vita.

A gennaio del 1917 la ‘Dixiland’ è a New York, nei night club. Così la Columbia li nota e li porta in sala di incisione. Tentativo fallito. Intervenne così la Victor, quella dei manifesti prima citati, che in realtà produceva grammofoni,  che riescì a far registrare due facciate, ‘Livery Stable Blues’ e ‘Original Dixieland one step’.

E’ il 26 febbraio 1917. E’ questo il primo disco jazz della storia.

New Orleans, Lousiana, luogo di incontro e di incontri. Il Jazz, secondo gli storici e gli appassionati, qui trova il suo riferimento agli albori. Nick La Rocca, ad esempio, era il frammento di una comunità cittadina cresciuta disordinatamente, come succede in tutti i cambiamenti epocali, immersa dentro un brodo di culture diverse.

Fondata dai francesi, New Orleans era diventata americana nel 1803 e con il passare degli anni incluse religioni diverse, cubani, irlandesi, spagnoli e, ovviamente, italiani. Siciliani, sopratutto. Nel 1910 gli italo-americani erano già circa ventimila, provenienti in genere dalle province di Palermo, Trapani e Agrigento.

A New Orleans si suona anche nei bordelli, come nel quartiere di Storyville, il quartiere a luci rosse, noto come ‘The District’. La comunità è una polveriera di umori e sapori, insomma. Di cose sporche, di sogni e voglia di riscatto. Da queste parti nasce una nuova vita, ma anche la tromba magica di Louis Armstrong. Qui arrivava da Palermo il ‘Montebello’, un piroscafo che portava in America arance e lavoratori, e poi importava il cotone della zona. Una rotta che si tradusse in uno scambio culturale, in un’epoca che purtroppo fu anche di conflitti sociali cruenti, come l’episodio del 14 marzo 1891, quando una folla di cittadini assalì la prigione locale e linciò ben undici migranti italiani, in particolare siciliani, accusati di essere implicati nell’omicidio del sovraintendente della polizia David Hennesy. Un episodio agghiacciante e significativo.

Ma c’era anche il jazz, dicevamo, che camminando sul suo itinerario felicemente sconnesso, portò la sua musica in città, una musica che era ballo, ascolto, virtuosismi e ribellione. Improvvisazione, sopratutto, nella cui arte si raccontava il lungo viaggio dell’integrazione.

E poi, più in là, navigando sulle note, nasceranno anche il rock, il rap, il funky, rhythm and blues l’hip-hop.

Gli italiani furono quindi protagonisti della rivoluzione. Ma non solo. Perché il genere, oltre ad essere afro-americano, ha anche i suoi percorsi che affondano nel mondo ebraico. Identità che si avvicinarono presto, unificando le umanità che spesso vivevano o erano vissute nei ‘ghetti’, nella emarginazione, lì dove la ricerca di libertà si rapportava quotidianamente anche con la solitudine, la sofferenza e la fatica. Ebreo era Benny Goodman, tra i primi bianchi a suonare con i neri, e clarinettista che seppe far conoscere il jazz al grande pubblico. Oppure George Gershwin, genio assoluto.

Il jazz è commistione, si sarà capito, e per questo durante il ventennio fascista ebbe i suoi bei problemi di convivenza in una nazione in cui un certo stile canoro e musicale doveva andare d’accordo con la propaganda. Una contraddizione però, se si pensa che il Fascismo abiurò il Jazz in quanto proveniente da un’altra cultura, sconosciuta, ritenuta deviata. Arte che però era stata fatta pulsare, e non con un contributo di secondo piano, dagli italiani stessi. Un paradosso che si distinse persino in casa Mussolini, dove Romano, il quarto figlio del Duce, del jazz si innamorò presto a tal punto da diventarne uno dei più apprezzati musicisti del dopoguerra, diventando amico di personalità come Duke Ellington e suonando con Chat Baker e una miriade di talenti. Gli scherzi della storia.

In questo ultimo aneddoto è insita la grande fortuna del jazz: non badare a chi sei e cosa fai. E’ l’espressione del diverso, un viaggio verso ogni cosa. E’ il luogo immaginario e fisico dove una nota può essere gettata nell'aria giorno dopo ogni giorno e ogni volta cambiare all'ascolto. Al Jazz non interessano i colori e le opinioni, l’origine religiosa, dove abiti, quali sono le tue origini. Se c’è un territorio in cui i confini di ordine geografico, ideale, culturale e di costume non contano è proprio questo ‘altro’ che ha messo sempre la musica, il sentimento e l’anima dentro lo spazio in cui vive.

Il jazz è l’isola in mezzo al mare in cui tutti sognano, almeno per un giorno, di vivere, l’incontro con i pensieri e le emozioni che prendendo origine dalle energie umane della terra ti trasporta nel magma del vulcano interiore. Un’esperienza che si può raggiungere ogni volta lo si desidera. E pazienza, davvero, per chi non ne capisce il senso, per chi non ci è cascato dentro almeno una volta.

E’ una bella creatura, il Jazz, che ama farsi cercare e ti sceglie, cambia di continuo per non piacere a tutti e scivola tra le mani di continuo. E’ quello che, soggettivamente, noi siamo. E’ il suo modo di conservarsi, di sembrare e restare immortale.