L’inarrivabile Andrea Pazienza. Il fumetto, la satira e l'arte nella massima libertà di espressione

Pubblicato: Sabato, 16 Giugno 2018 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Profilo di un grande artista, poliedrico e totale, scomparso il 16 Giugno 1988

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Andrea Pazienza era un artista poliedrico e spettacolare, un genio che sapeva e poteva disegnare tutto. Passava con slancio dai paesaggi impressionisti alle strisce irrispettose delle fanzine bolognesi, fino alle copertine per i dischi musicali, le locandine per i teatri di provincia, i manifesti per Federico Fellini. Un talento illimitato, scomparso troppo presto, capace di lasciare un’eredità di opere di alto spessore e senso del compromesso tra qualità e quantità.

Sul settimanale “Il Borghese” (notoriamente di destra), alla fine degli anni novanta, si scriveva: “Chi era il vero Caravaggio? Il massiccio Michelangelo Merisi da Milano, artista di fine ‘600, esteta bel gusto e nell’animo, estro siderale e della follia dilatata fino all’omicidio? Oppure il pennellone Andrea Pazienza da San Severo di Foggia, di fine ‘900, belloccio quanto bastava, ego e talento smisurati, passione insana per le orecchiette, Stevenson e l’anarchico Bakunin?”. Il parallelo è ardito, ma Pazienza, il Caravaggio, lo aveva interpretato davvero in un cortometraggio del 1975 e lo stesso artista era realmente ossessionato - per ammissione del suo professore al Liceo artistico di Pescara, Albano Paolinelli - dalla figura del grande pittore lombardo: “In un tema immaginava - disse - di aver fatto il servizio militare proprio col Merisi. Che la notte, in branda, gli parlava delle tecniche del colore del ‘600 e spiegava come trattare il tema della luce, in cui era insuperabile”. D’altronde l’artista pugliese, come il Merisi, fu parte del suo tempo. E come il seicentesco genio fece la sua rivoluzione.

Passò da San Benedetto del Tronto a San Severo di Foggia, poi da Pescara al Dums di Bologna, un ambito sociale e politico che esploderà tutte le sue pulsioni dissacranti in un anno, il 1977, parentesi storica e politica che seppe immaginare con i suoi temi la società del futuro. Sono i tempi della rivista “Alter Alter”, de “Le straordinarie avventure di “Penthoal”. Quindi verrà “Zanardi”, l’anti-eroe di una gioventù di perdenti, così sprezzante da mandare in tilt i giovani del Pci berlingueriano e raccontare Giovanni Paolo II sul bordo di una piscina intento a bere champagne e lanciarsi in ardite riflessioni: “E se esistesse davvero? Ma no, cosa vado a pensare…”.

Pazienza era un irregolare vero, un anarcoide con il senso del buon gusto e della cattiva sorte. Aveva una capacità: confrontarsi con il mondo rimanendo fermo su alcuni principi a cui cercava di ancorarsi, dipingendosi anche come uno che adorava (lo scrisse) “il Cabaret Voltaire e Gauillaulme Apollinaire, le bretelle di cuoio e le maglie a tinta unita, Charlie Brown e il costruttivismo, lo yogurt e gli incontri rosa, i cocktail al cioccolato e la besciamella, l’heppening, il New Dada, la Pop Art, Balla, Boccioni ed Ezra Pond e Marinetti Filippo Tommaso, fascisti”. Ispirazioni in tale contrasto tra loro da determinarne una miscela esplosiva.

Le sue improvvisazioni lo hanno reso libero da ogni schema. E’ riuscito a rappresentare il destino, la follia, la genialità, la miseria, la disperazione di quegli anni. 

L’anima più dissacrante e disagiata di quel ''movimento'' trovò in questo ragazzo il suo terminale. Fu criticato da chi, accecato dalla teoria, non aveva capito che l’arte e la vita non possono essere prigioniere (mai) di qualsivoglia strumento politico di egemonia. Freak Antoni, leader degli “Skiantos”, ricordò: ”Erano anni magici, nonostante le contraddizioni. Ma creativi, aperti, possibilisti al massimo, e positivi: si pensava che tutto fosse possibile. Andrea soffriva perché quelli del movimento studentesco lo accusavano di stare alla finestra, senza partecipare veramente alla politica. Dicevano che sfruttava gli slogan creativi per usarli nei fumetti. Soffriva invece perché aderiva a quegli ideali, anche se da artista: da chi assorbe e fiuta l’aria, secondo l’istinto. Era un “orecchiante”, come si definì”.

“Mi chiamo Andrea Michele Vincenzo Ciro Pazienza, disegno da quando avevo 18 mesi, so disegnare qualsiasi cosa in qualunque modo. Sono stato tesserato dal ’71 al ’73 ai marxisti-leninisti. Sono miope, ho un leggero strabismo, qualche molare cariato e mal curato. Ho la patente, ma non ho la macchina. Quando mi serve uso quella di mia madre, una Renault 5 verde. Io sono il più bravo disegnatore vivente. Amo gli animali, ma non sopporto di accudirli. Morirò il sei gennaio 1984”. Sbagliò una sola cosa, in questo piccolo autoritratto letterario, il ‘Paz’: il giorno della sua morte, avvenuta invece il 16 giugno del 1988 a soli 32 anni nel suo ‘esilio’ di Montepulciano, dove si era ritirato quattro anni prima per proseguire a realizzare i suoi personaggi, frutto delle macerie e delle eccitazioni del finire degli anni settanta.

Non si domandò dove fossero i confini della vita, della quotidianità. E’ stato fondatore di tutte le riviste che hanno lasciato un segno profondo nella cultura italiana della satira che, a sua volta, ha contaminato, sino ai giorni nostri, lo spettacolo: “Il Male”, “Frigidaire”, “Cannibale”. Quando scelse di andarsene a vivere in campagna scrisse poesie, continuò a disegnare, a pungere. ”Papà, gli elefanti volano?”. “Dove l’hai letta ‘sta cazzata?”.”Sull’Unità”. “Oh, oh…ah, sì, ma niente di che: 30, 40 centimetri…”. I comunisti, irritati, si dovettero adeguare. La generazione che leggeva queste battute, d’altronde, aveva deciso avviare la crisi del “grande Partito”, prima del crollo del Muro a Berlino.

Pazienza ha saputo consegnare al futuro un’eredità solida. Per questo ancora non è scomparso dall'immaginario collettivo. Il suo ricordo non è stato disperso (per fortuna), anche se la società che lo ispirava è cambiata, evaporata. Forse se ne starebbe da qualche parte, se fosse ancora vivo, a coltivare i suoi interessi. In disparte, magari, guardando e interpretando gli altri che sui social sentenziano e si insultano. Probabilmente non avrebbe amato nemmeno la retorica della celebrazione in suo onore.

Il frutto del passaggio, al di là di tutto, è stato di straordinaria bellezza. Questo importa.