6 Maggio 1976: il terremoto del Friuli. Il dolore, la dignità e la rinascita straordinaria

Pubblicato: Domenica, 06 Maggio 2018 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – La tremenda scossa della sera del 6 maggio fece quasi mille morti, ma il riscatto successivo fu un modello. Ancora oggi unico nel suo genere

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Sera del 6 maggio 1976, ore 21,06. L’Orco, l’Orcolat, come era soprannominato il terremoto, fa la sua comparsa in Friuli. Una scossa di terremoto del 6.4 scala Richter in pochi secondi sotterra quasi mille morti.

Il dolore pervade le comunità, le case, la paura sradica dalle loro terre di origine migliaia di persone. Una mobilitazione collettiva - fatta di mani nude che scavano incessantemente, squadre di volontari coordinate da sindaci, alpini, esercito, vigili del fuoco - cerca di prestare i primi soccorsi. E' in questa circostanza, diversamente da quanto accaduto prima in altre zone del Paese colpite da eventi simili, che la gestione dell'emergenza e la ricostruzione videro per la prima volta i capi delle comunità come protagonisti. Fu l’embrione della Protezione Civile, ma anche un diverso approccio di intervento per ripartire, iniziando dal lavoro come necessità immediata.

“Prima le fabbriche, poi le case, poi le Chiese”, raccomandò Monsignor Alfredo Battisti. Fu l’onorevole Giuseppe Zamberletti, nominato dal Governo Andreotti, a coordinare, in piena autonomia, i soccorsi e assistere le centomila persone che avevano bisogno di un tetto.

Quando i volontari e le forze dell’ordine giunsero nelle terre che erano state gettate nell’incubo, i numeri della tragedia erano sotto gli occhi di tutti: 137 comuni coinvolti, tremila feriti, 75 mila case danneggiate, 18mila rase al suolo. Non finì lì. Il terremoto tornò nel settembre, nei giorni 11 e 15 con magnitudo superiore a 5. Ciò che rimase in piedi, ebbe l’ultimo colpo di grazia. 

La zona più colpita, in quel 6 maggio, fu quella a nord di Udine. L’epicentro venne individuato tra i comuni di Gemona e Artegna e un epicentro strumentale localizzato più a est fra Taipana e Lusevera. I danni furono amplificati dalle condizioni del suolo. I paesi colpiti, in cima e sulle alture, diventarono nomi noti agli italiani. Danni rilevanti al patrimonio, ai valori artistici, devastazione delle chiese e degli antichi palazzi. Anche la zona dell'alta e media valle del fiume Isonzo, in territorio jugoslavo (Slovenia), venne duramente provata (Tolmino, Caporetto, Canale d'Isonzo e Plezzo).

Dopo il dolore, venne poi la dignità e la ricostruzione. Quella del cosiddetto “modello Friuli”, dove Gemona, Venzone, Osoppo e gli altri paesi furono ricostruiti “dov'erano e come erano”, rifiutando insediamenti diversi. Niente New Town, niente città satellite. Il coraggio fu affidare ai sindaci le forze a disposizione, mettendo da parte il centralismo e sfruttando l’autonomia. Così l Friuli rinacque.

Il 6 maggio 1976 la natura rovesciò il tempo che scorreva nelle abitudini delle case delle pendici della montagna, cambiò la storia, soffocò la vita sotto le macerie, lacerò l’esistenza dei sopravvissuti, danneggiò il patrimonio artistico. Tuttavia da quelle ore drammatiche nacque una visione nuova, la capacità di risollevarsi e distribuire speranza, sviluppo, economia, occupazione, modernità. Un’Italia che uscì dall’oscurità e rivide la luce. Un caso quasi unico, purtroppo, in una lunga sequela di ferite mai rimarginate e ancora irrisolte.