Walter Chiari, un talento unico ed inafferrabile

Pubblicato: Giovedì, 08 Marzo 2018 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Nasceva l’8 marzo 1924 il più grande ‘One man show’ della storia d’Italia. Le sue scelte fuori schema, la sue sfortune e le sue glorie

ilmamilio.it 

Il talento, la simpatia, l’amore per le donne, la grande creatività. Un mondano cosmopolita, un simbolo del periodo tra il dopoguerra italiano e il boom economico. C’era una vitalità e una qualità, in quell’Italia, che lui incarnava e che gli veniva riconosciuta: l’emanazione di un periodo felice.

Walter Chiari era un 'divo' che giocava a fare la corrida con Hemingway e lavorava con Orson Welles. Ha fatto tutto quello che lo appassionava, usava i premi che vinceva come schiaccianoci. Era disincantato e colto.

All'anagrafe Walter Anniccharico (Verona, 8 marzo 1924 – Milano, 20 dicembre 1991) fu per un lungo periodo della sua attività artistica  popolarissimo tra gli italiani. Forse anche più di Alberto Sordi, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, ovvero gli eroi del grande schermo per almeno un trentennio.

Chiari è stato un italiano atipico ed anomalo, un grande attore, un ‘One man show’ strepitoso con un vocabolario fuori dal comune, un uomo e un artista 'politicamente scorretto' senza darlo a vedere, un generoso con le mani bucate capace di accumulare clamorose ricchezze e di morire d’infarto in un posto dopo tutto modesto della periferia di Milano. E' stato il primo comico televisivo, un sempre  giovane, intelligente, ironico, capace di fare battute sul raffreddore di Mao nel pieno della piena 'rivoluzione culturale'.

Poliedrico, sportivo, prima di diventare famoso fece il magazziniere all’Isotta Fraschini, il radiotecnico, il bancario.  Anche lui rientrò nella generazione del secondo conflitto mondiale e delle divisioni della guerra civile. Fu nella Repubblica Sociale Italiana e finì nel campo di prigionia organizzato dagli americani a Coltano, in provincia di Pisa.  Qualche tempo prima, era stato scaraventato su un palcoscenico teatrale, dove aveva improvvisato un numero con l’imitazione di Hitler ed una gag su un balbuziente. Fu la sua 'prima'.

Finita la guerra approcciò il teatro di rivista, aiutato da un fascino riconosciuto e da un'incredibile capacità di improvvisazione. Attraversò il cinema con ‘Vanità’ nel 1946 (gli valse il Nastro d’Argento), poi Totò, Tognazzi, Luchino Visconti e Anna Magnani in ‘Bellissima’, il teatro con Garinei e Giovannini, Delia Scala, Sandra Mondaini, Ave Ninchi o Renato Rascel. Poi tanta televisione: ‘Canzonissima’, la ‘Via del Successo’. Monologhista raffinato, mai volgare. Con Carlo Campanini rimise in opera i Fratelli De Rege, maschere italiane geniali e rivitalizzate in chiave moderna, ma soprattutto il mitico ‘Sarchiapone’, animale immaginario e protagonista di uno storico sketch televisivo ambientato in uno scompartimento ferroviario: una bestia immaginaria e indefinita che per molti anni entrò nel linguaggio comune degli italiani ad indicare qualcosa di irriconoscibile. Anni fortunati, fino a quando, purtroppo, ci furono i settanta giorni di detenzione del 1970, all’interno dei quali nacque il figlio Simone (avuto con Alida Chelli), a causa dei guai giudiziari per uso di sostanze stupefacenti e a cui seguì un particolare ostracismo e solo una parziale riabilitazione.

Era stato uno degli ‘inventori’ a sua insaputa della ‘Dolce Vita’ con la mitica rincorsa al paparazzo Tazio Secchiaroli, l’ispiratore di ‘Rocco e i suoi fratelli’, dove è narrata la storia di una famiglia meridionale in cui la boxe è protagonista e c’è un un ragazzo dal ciuffo ribelle che strega uomini e donne. Non faceva il grande cinema costantemente, ma lo ispirava. Anche se tra i titoli a cui partecipò, oltre a 'Bellissima', partecipò ad altre due perle del Novecento: "Il giovedì", di Dino Risi, pellicola di grande valore in cui il suo ruolo di protagonista è indimenticabile, e la straordinaria parte del balbuziente Silence nel 'Falstaff' di Orson Welles. 

Walter Chiari a Regina Coeli fu qualcosa di più di un ‘vip arrestato’. Da sei mesi era passata la strage di Piazza Fontana. Passò un mese in camera di isolamento con quindici minuti di aria al giorno. Venne usato come un’arma di 'distrazione di massa'. Era bello, popolare, ricco, figlio di un poliziotto, non allineato. Il simbolo di una ‘certa Italia’ che venne sbattuto in prima pagina, distogliendo l’attenzione sulla pesantezza politica di quei momenti.

La cella lo rovina. La televisione lo evita. Poi torna un’occasione: è ‘L’appuntamento’, nel 1973, ma intanto è cambiata l’Italia. Non sta più al passo, non ha più il vecchio 'graffio'. Per dieci anni vive dentro un tunnel di emittenti commerciali, con spettacoli discutibili, dove lui si impegna per essere pagato e andare avanti. Si adatta. Con le porte chiuse, fa quello che può.

Il resto della carriera è comunque dignitoso e con qualche picco di eccellenza. Gira ‘Romance’ di Massimo Mazzucco, dove sfodera una grande interpretazione. A Venezia gli viene annunciato che vincerà il ‘Leone d’Oro’ come miglior attore. Tutto sembra fatto. Invece il riconoscimento finisce al pur bravo Carlo Delle Piane. Un’altra beffa. In teatro è splendido in ‘Finale di partita’ di Samuel Beckett. Una parte da cieco e invalido. Un paradosso della sua vitalità.

Va a vivere in un residence. Si spegne in una sera come tante. Sulla tomba avrebbe voluto questo epitaffio: “Non piangete, è soltanto sonno arretrato”.

Quelli che lo hanno conosciuto dicono che in fondo non è invecchiato mai.