Aldo Palazzeschi e il suo nascondiglio divertito fuori dalle banalità

Pubblicato: Venerdì, 02 Febbraio 2018 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Il 2 Febbraio 1885 nasce un geniale interprete della nostra poesia e della letteratura 

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Aldo Palazzeschi è stato uno degli scrittori e poeti più importanti della letteratura italiana del Novecento. Nella sua lunga esistenza, riuscì ad essere anche altra cosa rispetto all’esperienza ‘avanguardista’ della giovinezza che lo aveva lanciato, scavalcando ogni gabbia ideologica e ogni appartenenza.

Pseudonimo di Aldo Pietro Vincenzo Giurlani, nasce il 2 febbraio nel 1885 a Firenze ed esordisce come poeta nel 1905 con il libretto di versi “I cavalli bianchi”. Quattro anni dopo, dopo la pubblicazione della terza raccolta, “Poemi”, diventa amico di Filippo Tommaso Marinetti, la locomotiva d’Europa, e aderisce alla sua creazione: il Futurismo. Il fondatore del movimento era entusiasta e affascinato dell'uso del verso libero dell’autore fiorentino: “I vostri poemi mi hanno vivissimamente interessato per tutto ciò che rivelano in voi di non ancora espresso e di sicuramente originale. Vi è - nel vostro volume - come già nei Cavalli bianchi, un odio formidabile per tutti i sentieri battuti, e uno sforzo, talora riuscitissimo, per rivelare in un modo assolutamente nuovo un'anima indubbiamente nuova”.

Molti anni dopo, in un’intervista ove ricordava il suo periodo fertile e coraggioso, ricordò: “Marinetti dette uno scossone a tutto il provincialismo e a tutto l'accademismo in una volta. Qualcuno dice che era stupido. Certo, quelle sue poesie che sono tutte un'onomatopeia non possono far pensare bene: l'onomatopeia a perseguirla all'infinito diventa meccanica. Però bisogna dire di lui che fu anzitutto un uomo d'azione capitato in mezzo alla letteratura. L'hai mai visto un uomo d'azione che sia pure un letterato? Pensa a che difficoltà ci sono a mettere insieme un movimento di cultura o d'arte in Italia. Marinetti le superò”.

Emblematico componimento, è Lasciatemi divertire, dove il poeta si impegna, per l’appunto, a giocare con le parole, a ridurle, a prenderle in giro, spezzarle, per rovinare la lettura tradizionale.  E’ il periodo in cui non pensa di sé come a un poeta, bensì come a un “saltimbanco della sua anima”. E’ giovane, è folle, vive diversi stati d’animo. E trasmette tutte queste fasi nei suoi componimenti.

Nel 1913 Palazzeschi collabora con “Lacerba”, la rivista condotta da Papini e Soffici, voce non solo del Futurismo ma anche delle pulsioni più innovatrici, giovanili, e dell’interventismo. Tuttavia Palazzeschi, nei confronti del Futurismo stesso, ebbe un rapporto piuttosto autonomo nella personalità. Pur essendo attratto dalla vitalità di Marinetti, dopo aver ascoltato il messaggio di pace del nuovo papa, Benedetto XV, alla vigilia della Grande Guerra, si dichiarò neutrale. “Mi offrite una guerra che ha per mezzo la morte e per fine la vita – commenterà - io ve ne domando una che abbia per mezzo la vita e per fine la morte”. Tuttavia il tempo maturò altre convinzioni ancora. La speranza di una rivoluzione acquietò la fase di riflessione e al momento della dichiarazione di guerra si riavvicinò alle posizioni dei compagni. Esordirà su Lacerba scrivendo: "Evviva questa guerra!". Quella, appunto, che nella speranza dei giovani di quella generazione avrebbe cambiato tutto: l’Europa, le nazioni, l’Italia.

Nell’estate del 1916 è richiamato alle armi, come tanti futuristi. Molti di loro periranno nel conflitto: Boccioni (leggi La primavera luminosa di Umberto Boccioni. Una necessaria modernità) e Sant’Elia, per citarne due di grande importanza. Palazzeschi affidò i suoi ricordi di quel periodo a “Vita militare” e “Due imperi… mancati” (1920). Durante gli anni del Fascismo, non partecipò alla cultura ufficiale. Anche lì, distaccato. A parte. Comunque influente.

L’autore in quel periodo storico è già un punto di riferimento letterario. La vetta massima della sua poesia l’aveva già raggiunta ne “Il codice Perelà” del 1911. A guerra finita, però, stava maturando altre scelte, che gradualmente lo portarono a riavvicinarsi a forme più tradizionali di scrittura, fino al sarcastico romanzo “Sorelle Materassi”, un successo di proporzioni nazionali. Dietro la trama del libro uscito nel 1934, secondo l’interpretazione di alcune analisi, ci sarebbero dei riferimenti autobiografici alla sua omosessualità. Le sorelle Teresa e Carolina, descritte sulla soglia dei cinquant'anni, non sarebbero altro che le proiezioni del Palazzeschi stesso. Una dissimulazione, compiuta in pieno regime fascista, rimarcando una diversità sessuale improponibile al tempo, un'emozione sepolta e respinta dell’autore che viene messa in crisi dall'arrivo di un giovane.

Durante la guerra di trasferì a Roma e conobbe una nuova trasformazione, culminata con il romanzo omonimo dedicato alla Capitale, "Roma", ritratto di una città che scompariva nella narrazione di un’umanità che dalla strada agli altari, dalla ricchezza alla povertà, tra solidarietà e cinismo, veniva offerta in un ventaglio di varie individualità che facevano da coro alla crisi dei costumi e della società.

Ormai anziano, non viveva con particolare entusiasmo il ritorno delle neoavanguardie. Scrisse a Edoardo Sanguineti del ‘Gruppo 63’: “Coloro che furono avanguardisti cinquant’anni fa, saranno i più acerrimi nemici degli avanguardisti d’oggi, giacché la loro avanguardia è passata alla storia senza che se ne siano accorti, e a quella come ostriche sono rimasti attaccati. E dunque, caro Sanguineti, che cos’è mai questa avanguardia?”.

Fra le sue ultime opere, all’alba degli ottant’anni, ci sono “Il buffo integrale”, “Stefanino” (1969), “Il Doge” (1967), “Storia di un’amicizia” (1971). Negli ultimi anni è insignito di numerosi premi e riconoscimenti. Muore in agosto, nel 1974, a Roma.

“Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange – aveva scritto tanti anni prima su Lacerba - sviluppando la nostra profondità. L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride… Bisogna rieducare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente…”. Egli stesso fu ironico, sognatore, fuori dagli schemi.

Di lui è rimasto tanto, ma c’è una poesia, “I fiori”, che ancora oggi farebbe parlare di sé, anche nella nostra società in cui non ci si meraviglia più di nulla. Versi divertiti che non risparmiarono, all’epoca, i particolari piccanti, le stranezze e le stravaganze erotiche in una critica della morale insita in una certa cultura borghese, spietata contro ogni trasgressione e deviazione e insieme imprevedibile, imperfetta, corrotta, corruttibile, viziosa, perversa.

Il poeta è disgustato e sorpreso, nel comporre la sua storia, del mondo corrotto e osceno del giardino in cui inizialmente cercava accoglienza e conforto, un desiderio di verità e trasparenza, fuggendo dagli uomini capaci di 'peccati e debolezze, miserie, viltà, tutte le nefandezze'. Fu soprattutto Paolo Poli (leggi Paolo Poli, il suo teatro e altre bellezze simili ), altro 'irregolare' di pensiero, a rendere unica questa composizione. In quel 'nascondiglio fuori della natura' che tanto ancora ci affascina.

Non so perché quella sera,
fossero i troppi profumi del banchetto…
irrequietezza della primavera…
un’indefinita pesantezza
mi gravava sul petto,
un vuoto infinito mi sentivo nel cuore…
ero stanco, avvilito, di malumore.
Non so perché, io non avea mangiato,
e pure sentendomi sazio come un re
digiuno ero come un mendico,
chi sa perché?
Non avevo preso parte
alle allegre risate,
ai parlar consueti
degli amici gai o lieti,
tutto m’era sembrato sconcio,
tutto m’era parso osceno,
non per un senso vano di moralità,
che in me non c’è,
e nessuno s’era curato di me,
chi sa…
O la sconcezza era in me…
o c’era l’ultimo avanzo della purità.
M’era, chi sa perché,
sembrata quella sera
terribilmente pesa
la gamba
che la buona vicina di destra
teneva sulla mia
fino dalla minestra.
E in fondo…
non era che una vecchia usanza,
vecchia quanto il mondo.
La vicina di sinistra,
chi sa perché,
non mi aveva assestato che un colpetto
alla fine del pranzo, al caffè;
e ficcatomi in bocca mezzo confetto
s’era voltata in là,
quasi volendo dire:
“ah!, ci sei anche te”.

Quando tutti si furono alzati,
e si furono sparpagliati
negli angoli, pei vani delle finestre,
sui divani
di qualche romito salottino,
io, non visto, scivolai nel giardino
per prendere un po’ d’aria.
E subito mi parve d’essere liberato,
la freschezza dell’aria
irruppe nel mio petto
risolutamente,
e il mio petto si sentì sollevato
dalla vaga e ignota pena
dopo i molti profumi della cena.
Bella sera luminosa!
Fresca, di primavera.
Pura e serena.
Milioni di stelle
sembravano sorridere amorose
dal firmamento
quasi un’immane cupola d’argento.
Come mi sentivo contento!
Ampie, robuste piante
dall’ombre generose,
sotto voi passeggiare,
sotto la vostra sana protezione
obliare,
ritrovare i nostri pensieri più cari,
sognare casti ideali,
sperare, sperare,
dimenticare tutti i mali del mondo,
degli uomini,
peccati e debolezze, miserie, viltà,
tutte le nefandezze;
tra voi fiori sorridere,
tra i vostri profumi soavi,
angelica carezza di frescura,
esseri puri della natura.
Oh! com’ è bello
sentirsi libero cittadino
solo,
nel cuore di un giardino.
– Zz… Zz…
– Che c’è?
– Zz… Zz…
– Chi è?
M’avvicinai donde veniva il segnale,
all’angolo del viale
una rosa voluminosa
si spampanava sulle spalle
in maniera scandalosa il 
décolleté.
– Non dico mica a te.
Fo cenno a quel gruppo di bocciuoli
che son sulla spalliera,
ma non vale la pena.
Magri affari stasera,
questi bravi figliuoli
non sono in vena.
– Ma tu chi sei? Che fai?
– Bella, sono una rosa,
non m’hai ancora veduta?
Sono una rosa e faccio la prostituta.
– Te?
– Io, sì, che male c’ è?
– Una rosa!
– Una rosa, perché?
All’angolo del viale
aspetto per guadagnarmi il pane,
fo qualcosa di male?
– Oh!
– Che diavolo ti piglia?
Credi che sien migliori,
i fiori,
in seno alla famiglia?
Voltati, dietro a te,
lo vedi quel cespuglio
di quattro personcine,
due grandi e due bambine?
Due rose e due bocciuoli?
Sono il padre, la madre, coi figlioli.
Se la intendono… e bene,
tra fratello e sorella,
il padre se la fa colla figliola,
la madre col figliolo…

Che cara famigliola!
È ancor miglior partito
farsi pagar l’amore
a ore,
che farsi maltrattare
da un porco di marito.
Quell’oca dell’ortensia,
senza nessun costrutto,
si fa sì finir tutto
da quel coglione
del girasole.
Vedi quei due garofani
al canto della strada?
Come sono eleganti!
Campano alle spalle delle loro amanti
che fanno la puttana
come me.
– Oh! Oh!
–  Oh! ciel che casi strani,
due garofani ruffiani.
E lo vedi quel giglio,
lì, al ceppo di quel tiglio?
Che arietta ingenua e casta!
Ah! Ah! Lo vedi? È un pederasta.
– No! No! Non più! Basta.
– Mio caro, e ci posso far qualcosa
io,
se il giglio è pederasta,
se puttana è la rosa?
– Anche voi!
– Che maraviglia!
Lesbica è la vainiglia.
E il narciso, quello specchio di candore,
si masturba quando è in petto alle signore.
– Anche voi!
Candidi, azzurri, rosei,
vellutati, profumati fiori…
– E la violacciocca,
fa certi lavoretti con la bocca…
– Nell’ora sì fugace che v’è data…
– E la modestissima violetta,
beghina d’ogni fiore?
Fa lunghe processioni di devozione
al Signore,
poi… all’ombra dell’erbetta,
vedessi cosa mostra al ciclamino…
povero lilli,
è la più gran vergogna
corrompere un bambino
– misero pasto delle passioni.
Levai la testa al cielo
per trovare un respiro,
mi sembrò dalle stelle pungermi
malefici bisbigli,
e il firmamento mi cadesse addosso
come coltre di spilli.
Prono mi gettai sulla terra
bussando con tutto il corpo affranto:
– Basta! Basta!
Ho paura.
Dio,
abbi pietà dell’ultimo tuo figlio.
Aprimi un nascondiglio
fuori della natura!