Silvio Pellico e quel libro che fece male al nemico "più di una battaglia persa". Tra conversione e denuncia civile

Pubblicato: Mercoledì, 31 Gennaio 2018 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Il 31 gennaio 1854 muore l’autore de ‘Le mie prigioni’, un’opera simbolo degli anni del riscatto italiano. Una storia complicata

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Il cancelliere Klemens Von Metternich, sensibile al rispetto per gli avversari che avevano un valore morale sopra la norma, rammentò che il testo de “Le mie prigioni” danneggiò l'immagine della parte austriaca più di una battaglia persa.

Quando morì, a Torino, il 31 gennaio 1854, Silvio Pellico, intellettuale e scrittore diventato celebre per il suo libro autobiografico, era già entrato nella storia del Risorgimento. Forse a sua insaputa, dato che le sue memorie sembra che non fossero così finalizzate in realtà a sollevare gli animi degli insorti. “Le mie prigioni”, infatti, è (ed era) nella sostanza il racconto dei difficili anni trascorsi in un carcere (lo Spielberg) e la narrazione di una conversione alla religione cattolica.

Pellico fu arrestato 13 ottobre 1820 a Milano. “Erano le tre pomeridiane – scriverà - Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno e per altri ancora. Ma di ciò non dirò nulla. Simile ad un amante maltrattato dalla sua bella, e dignitosamente risoluto di tenerle broncio, lascio la politica ov’ella sta, e parlo d’altro”.

Quando rammenterà tutto ciò nel 1832, una volta tornato alla libertà, aveva esaurito la sua fase rivoluzionaria. La gioventù si era consumata ed egli si approssimava ad una contemplazione che lo porterà ad essere terziario dell’ordine francescano. Aveva ormai 42 anni. Era nato nel 1789, anno di grandi cambiamenti per l’Europa. A Parigi la rivoluzione aveva mosso un’altra storia, dentro alla quale erano maturate pulsioni nuove in grado di sollevare il pensiero moderno. Forse per questo, nella sua gioventù, quando era giunto a Milano facendo l’insegnante, Pellico aveva iniziato a frequentare e a scrivere per Il Conciliatore, rivista oggetto delle attenzioni della censura dell’impero austroungarico.

Sono gli anni delle idee liberali e patriottiche, del sentimento di unità e di ribellione verso l’occupante, ma questa animosità non si traduceva poi in qualcosa di realmente concreto, frammentato com’era da confusione, velleità, divergenze di impronta. Sull’indipendenza e l’unità dell’Italia la base era comune, così come l’ottenimento della fine di ogni censura. Sul resto, però, tante erano le sfumature. 

Pellico entrò a far parte dei “Federati”, una delle tante cellule carbonare. Il gruppo fu presidiato e soppresso dalla polizia quando Piero Maroncelli, uno dei suoi affiliati, fu arrestato mentre era in possesso di alcune lettere indirizzate ad altri componenti del sodalizio. Iniziarono così una raffica di arresti e confessioni che annullarono ogni intento politico. Dopo l’arresto cominciò il processo: tutti condannati a morte. Come capitava spesso, sopraggiunse poi la grazia dell’Imperatore, il quale cambiò la sentenza in 15 anni di carcere duro in un’antica fortezza nell’odierna Repubblica Ceca: il castello di Spielberg.

Dentro alle celle umide, nella solitudine di pochi conforti, Pellico visse la sua esperienza di vita più drammatica e rivelatrice, tra cibo scarso e di cattiva qualità, lunghe giornate, il rapporto tra carcerieri e carbonari, posti insalubri, malattie. Venne poi il tempo di altre grazie. Pellico, dopo nove anni di reclusione, tornò in libertà. Ma la segregazione lo aveva profondamente cambiato. Da uomo di pensieri liberali commutò la sua idea in un cattolicesimo ferreo, senza sconti. Tant’è che ebbe modo di raccontare, secondo gli storici, che persino ‘Le mie prigioni’ era stato scritto non per denunciare il sistema carcerario austriaco, ma piuttosto per evidenziare come il senso religioso potesse essere di conforto in quei momenti di sofferenza e isolamento.

Un giorno avendo letto che bisogna pregare incessantemente, e che il vero pregare non è borbottare molte parole alla guisa de’ pagani, ma adorar Dio con semplicità, sì in parole, sì in azioni, e fare che le une e le altre sieno l’adempimento del suo santo volere – scrisse - mi proposi di cominciare davvero quest’incessante preghiera: cioè di non permettermi più neppure un pensiero che non fosse animato dal desiderio di conformarmi ai decreti di Dio”. E’ il Pellico, questo, che cambia la sua personalità e forma l'uomo che verrà dopo, quello meno noto alle cronache.

Dopo ‘Le mie prigioni’, tradotto e diffuso in mezza Europa, ebbe una notorietà inaspettata. Tuttavia non fu la volontà dello scrittore, ma l’interpretazione che gli diedero i rivoluzionari, a farlo diventare una sorta di esempio di libertà e rettitudine di fronte l’oppressione. Il timbro liberale prese il posto di quello spirituale. Così l’opera divenne per la storia la denuncia dell'agghiacciante comportamento dell’Impero contro i suoi oppositori, anziché un risvolto interiore dell’autore.

Il paradosso è che Pellico, uscito di galera, non frequentò più gli ambienti dell’insurrezione. Si trasferì a Torino, si dedicò alla composizione di tragedie che non ebbero grande fortuna, continuò ad insegnare ai figli dell’aristocrazia, divenne terziario francescano. Quasi una giravolta, rispetto alle sue intemperanze, se così vogliamo chiamarle, giovanili. Tanto che qualcuno iniziò a pensare di lui fosse diventato “austriacante”. Si avvicinò al cattolicesimo più intransigente, quello che disprezzava modernisti e repubbliche. Ma alla fine la sua fama lo portò ad essere, per talune analisi recenti, un incompreso. Sia per i cattolici di stampo intransigente, visto il suo passato di carbonaro, e sia per i carbonari stessi, vista la sua evoluzione intellettuale.

Tuttavia, a Unità d’Italia conquistata, Pellico rimase un simbolo. Della sua testimonianza, da qualunque parte la si guardi, rimane un importante tassello della narrazione di quegli anni che si avvicinavano ad una dimensione nazionale, patriottica ed indipendentista. Comunque fu una riflessione sui diritti umani e sulla libertà di un condannato al carcere solo perché italiano.

Un italiano di quella gioventù che fu forse la migliore della nostra storia. L’unica che vinse, nei fatti, la sua sfida fondamentale.