FOOD | Il Teatro in Cucina con lo chef stellato Francesco Apreda

Pubblicato: Sabato, 23 Gennaio 2021 - Francesco Garbo

ROMA (food) - Francesco Apreda è chef stellato conosciuto in Italia e nel mondo

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“Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte.”

(Shakespeare-Il mercante di Venezia)

Voi direte, cosa ha a che fare Shakespeare, il teatro tutto con il mondo della cucina?

Eppure leggendo questo articolo scoprirete che le due cose sono più legate di quanto possiate immaginare, o per meglio dire, nella cucina di Francesco Apreda questi due mondi assumono una dicotomia ben chiara.

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Ilmamilio.it ha avuto l’onore di intervistare per la prima volta uno chef stellato ed ho subito fresco lo scoop da  prima pagina : è un uomo, vive, respira e mangia proprio come noi!

Negli ultimi anni viviamo la mitizzazione della cucina, una gastronomizzazione del mondo intero nel quale sei giudicato per ciò che mangi ma soprattutto per ciò che non mangi; una guerra —continuando a citare Shakespeare —  tra Montecchi carnivori e Capuleti vegetariani non tralasciando i personaggi principali Romeo (chef carnivori) e Giulietta (chef vegetariani) interpretati appunto dagli chef che sono diventati dei miti viventi, monumenti che hanno perso pian piano la loro umanità subendo il processo inverso del collodiano Pinocchio.

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“Oh guanciale perché sei tu un povero maiale? Rinnega la carne, cucina solo verdure”.

Potrebbe essere un’idea per un cibesco spettacolo teatrale questo, ma ritorniamo a noi.

Durante l’intervista ho scoperto l’umanità che si cela dietro questi chef stellati, nel caso di Francesco Apreda parliamo di un cuoco che non ha alle spalle una storia di successo familiare nella ristorazione ma la storia di una famiglia semplice come tante,  che grazie al padre lungimirante scappa dalla difficile situazione delle periferie napoletane per poter assicurare un futuro migliore ai propri figli.

Ed ecco che il nostro chef diventa Robinson Crusoe, un lampante esempio defoeniano di self-made man, un uomo che si costruisce da solo nonostante le difficoltà.

Forse è proprio questo che ha contribuito a farlo diventare oggi uno chef affermato: nella sua vita ha viaggiato tantissimo e questo si ritrova nel suo stile culinario.

Londra, dove approda quasi per caso a un festival ma poi torna per restarci cinque anni,  come prima esperienza gli ha aperto le porte di una cucina globale che da li ha preso il volo (aereo ma anche in senso figurato) per una cucina e una cultura del tutto diversa: quella del Giappone e poi in seguito dell’India.

Lui stesso mi racconta che “L’india è stato amore a prima vista, una volta presa dimestichezza poi esplori il popolo”: talmente la dimestichezza presa con questa civiltà che l’uomo più ricco dell’India l’ ha ingaggiato per curare la parte gastronomica del matrimonio di sua figlia.

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L’eredità più grande che gli ha lasciato questo paese, oltre alla cultura del rispetto, è  il mondo infinitamente vasto delle spezie che lo ha portato a oggi a creare un menù privo di sale.

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Dopo vari anni all’estero decide che è il momento di tornare in Italia, determinato nel far conoscere al pubblico dello Stivale la sua cucina appresa qua e là nel mondo.

Torna quindi all‘Hassler che aveva visto muovere i suoi primi passi in cucina anni prima e poi decide di spostarsi all’Idylio al Pantheon per rivolgersi ad un pubblico più giovane.

Il suo voler avvicinare il popolo romano è ben chiaro anche con il menù fisso a un prezzo leggermente inferiore.

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Ci tiene a sottolineare quanto, soprattutto in un mondo carico di stress e tensione come quello della cucina, il supporto di sua moglie sia stato importante, lei infatti lo ha seguito in ogni suo viaggio e spostamento.

Tra l’altro, al contrario di quanto si possa immaginare, a casa sua dietro ai fornelli c’è la moglie.

Sei uno chef di quelli che in cucina tira padelle con annessi insulti?

“La cucina è complessa perché lo sbaglio è dietro l‘angolo, la concentrazione è fondamentale, bisogna essere bravi a mantenere il rigore.

Mi è capitato di fare colloqui non direttamente con gli chef ma con lo psicologo che mi ha fatto proprio la tua domanda, ma la mia risposta è stata:  mi scanso e continuo il lavoro.

Ho vissuto sotto una dittatura maniacale e questo è servito perché l’errore è una frazione di secondo.

Considera anche che il servizio lo affronti da stanco dopo ore e ore di preparazioni, questo però non vuol dire che bisogna lanciare la padella e nemmeno lo giustifica, sicuramente meglio estrapolare il massimo dalle persone.

Io conosco il mio staff so chi ho davanti e so cosa posso chiedere e a chi posso chiederlo.

Quando alla base di tutto c’è il rispetto la squadra si forma in automatico, quando invece manchi di rispetto devi essere percepito con il pugno duro, un pò come fa un genitore.”

                                                «Sarà così la vostra fantasia

                                                a vestire di sfarzo i nostri re,

                                                a menarli dall'uno all'altro luogo,

                                                saltellando sul tempo,

                                                e riducendo a un volger di clessidra

                                                gli eventi occorsi lungo diversi anni”

Shakespeare, che torno a citare, ci spiega a fondo cosa voglia dire la sospensione dell’incredulità nel mondo del teatro ed è questa stessa sensazione che ho provato davanti alla descrizione di un piatto di Francesco Apreda ovvero il suo piatto più rappresentativo: il cappelletto in brodo di tonno.

Mi spiega che questo piatto racchiude le culture che lo rappresentano, il cappelletto ripieno di parmigiano ovviamente rappresenta l’Italia mentre il brodo freddo lo ha scoperto in Giappone.

Si trova inizialmente a dover cambiare dei piatti perché non veniva percepito, rapportandosi in contesti multirazziali capisce come mangiano le altre culture, cambia anche le quantità.

Ma torno sul brodo freddo che è la cosa che più mi ha incuriosito, mi racconta infatti che ha lasciato spiazzate le persone e per questo ritiene che il racconto del piatto sia davvero fondamentale per capirlo e gustarlo a pieno.

Ed è qui che io ci ritrovo il teatro e la sospensione dell’ incredulità, ma anche il metateatro di Shakespeare con la sua voglia di rompere la “quarta parete”.

Quando ci sediamo a mangiare un piatto di questo genere dobbiamo affidarci al racconto che Apreda ce ne fa, dobbiamo credere a ciò che ci dice e che ci racconta abbandonandoci all’esperienza gustativa liberi dai contesti, abitudini e giudizi che potremmo dare allo stesso piatto senza averne sentito prima la storia che c’è dietro.

“Portavo con me i miei cuochi —mi spiega— per capire quello che succedeva nel viaggio e nella scoperta. Nell‘aereo di ritorno spesso avevo le migliori idee.

Un giorno torno con del cardamomo nero dell’ Himalaya a casa e mi tuffo in cucina con la curiosità di abbinare quest’ingrediente così particolare, così prendo dei pomodori e del provolone. Proprio da qui  è nato il piatto, risotto al pomo D’oro provolone e cardamomo”

Come i cappelletti anche quest’ultimo è un piatto che fonde ricordi ed esperienze in questo caso ricordi d’infanzia napoletana con le spezie indiane.

In conclusione, che non ce ne voglia Walter Benjamin, dovremmo andare ad assaggiare la cucina del nostro chef perché lui sostiene che i suoi piatti sono “irriproducibili” e mostrano la sua anima.

 

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