Hannah Arendt: dalla 'banalità del male' alla critica della società economica

Pubblicato: Sabato, 14 Ottobre 2017 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Nasceva il 14 ottobre del 1906 ad Hannover una grande pensatrice del Novecento

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La discussione su Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975), pensatrice e scrittrice tedesca naturalizzata statunitense, è ancora in corso. Gli addetti ai lavori e gli studiosi continuano a dibattere, ove e quando capita, sulle opere di questa donna di grande valore umano.

Le privazioni dei diritti e la persecuzione subita in Germania a partire dal 1933 a causa delle sue origini ebraiche, hanno contribuito ad elevarne il carisma. Il regime nazista le ritirò persino la cittadinanza. Rimase un’apolide, fino al 1951, anno in cui ottenne la cittadinanza americana.

Studentessa di filosofia con Martin Heidegger all'Università di Marburgo, ebbe con quest’ultimo una relazione segreta ed interrotta dalla scoperta dei rapporti col nazismo intrapresi dal filosofo di Messkirch, da cui si dissociò. Si trasferì a Heidelberg, dove si laureò con una tesi sul concetto di amore in Sant'Agostino. Trasferitasi a Parigi, si prodigò per aiutare gli esuli ebrei fuggiti dalla Germania. Dopo l'invasione e occupazione tedesca della Francia, durante la seconda guerra mondiale, e il conseguente inizio delle deportazioni verso i campi di concentramento, dovette emigrare. Rifiutò di essere etichettata come una filosofa, preferì che la sua opera fosse descritta come 'teoria politica'. 

Alla sua riflessione è legata l’analisi del fenomeno del totalitarismo, in tutte le sue forme. Ne Le origini del totalitarismo (1951) ella concepì i fenomeni autoritari del Novecento come una novità assoluta nella storia del genere umano. Nei regimi totalitari, di fatto, gli individui vivono il proprio isolamento in un clima di violenza che dà luogo ad un terrore che si esercita per il suo puro intendimento. E’ l’idea del "male radicale", cioè del male fine a se stesso, che non serve a nulla e persegue solo fini di repressione. Nonostante questa realtà agghiacciante, l’uomo – secondo la Arendt - si era così inserito negli ingranaggi dello sterminio da trasformarsi in un essere senza coscienza e senza moralità, capace di uccidere senza rimorsi, nella semplicità. Un pensiero, questo, che affina e trasforma in La banalità del male (1963), ove prendendo ad esempio la figura di Adolf Eichmann, condannato a morte per l’Olocausto, considera il male stesso come qualcosa che non è più straordinario, ma parte delle persone che ci sono vicine e del nostro essere.

Eichmann, durante il processo, sosteneva infatti di aver obbedito a degli ordini. Era assente in lui – secondo l'interpretazione della donna di Hannover - "lo spazio pubblico", l’area di giudizio su ciò che avviene, dove non si raggiunge quella singolarità che ti permette di essere qualcosa in un mondo di tanti. Non distinguendosi dall’ingranaggio, l’uomo è capace così di negarsi e di ripetere ordini ricevuti, frasi fatte. Il male si innerva così quando finisce il dialogo con se stessi, si assenta la fase della riflessione e il saper distinguere e riconoscere il bello e il brutto, il male e il bene. E’ il pensiero, dunque, l’unica opposizione contro la massificazione e il conformismo. Nei regimi totalitari politici, come in quelli economici.

Nel 1958 è La condizione umana (Vita activa) il libro in cui tale intuizione diventa concreta, nell’ambientazione di un mondo in cui prevale sempre più la tecnica Mentre nel mondo greco o romano la vita era lavoro, ma anche creazione artistica, azione politica, contemplazione, convivialità, utilità, durevolezza o immortalità dell’agire, ecco che nell’età moderna, altresì, la contemplazione si è dispersa nel dato scientifico, materiale, nell’astrazione di un presentismo dove il fare, inteso come viaggio, è "spoliticizzato" e il gioco della politica è nelle mani di pochi in un contesto che ha privilegiato l’economia ed ha dimenticato il vero significato delle azioni che si compiono, cogliendo quella negazione della singolarità e dell’individuo che sono l’anticamera della sottomissione.

Agire, fare in modo che ciò che porti dentro al mondo venga raccontato per tramandarlo alle generazioni future è fondamentale per vivere davvero e non solo per un meccanismo biologico che ci fa nascere e morire. Lasciare tracce, con le proprie caratteristiche, con la propria autonomia di analisi, è il primo antidoto per non farsi classificare, irregimentare, nutrendo la mente del dubbio della domanda, primo passo verso l’incontro con gli altri in una società dialogante che sappia estraniarsi da qualsiasi forma di posizionamento su un unico binario. Un fattore che la Arendt sperimentò sulla sua pelle e che rimane un punto di vista fondamentale (e libero) anche nella nostra società di pensieri unici e dominanti.