L’intelligenza irrequieta, scomoda e inafferrabile di Leo Longanesi

Pubblicato: Mercoledì, 27 Settembre 2017 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Il 27 settembre del 1957 muore un autentico protagonista della cultura italiana. Aforismi, scrittura innovativa. Un moderno grafico e giornalista ancor più moderno. Mai banale.

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“Roma, 30 Novembre, Con mio cognato ho raggiunto la via dedicata a mio suocero. Una strada breve, tra orribili case moderne, non finite. Inciso sul marmo: Armando Spadini, Pittore. Data di nascita e di morte. Pioviggina. Una coppia di amanti sotto l’ombrello si bacia, appoggiata ad un muro. “E’ questo il mio omaggio dei posteri”, penso. Ma appena voltato l’angolo, a lasciar quella via, ho sentito una stretta al cuore. Gli anni che passano, la campagna che si popola di case, le nuove strade, i nuovi negozi. Qualcosa che ci spinge via, che vive senza di noi, nel mondo che non ci piace. E che di noi serba soltanto il nome. Per avere un indirizzo postale”.

Quando Leo Longanesi morì per un infarto, il 27 settembre del 1957, tutta la sua ironia e i suoi graffi, passati dentro al fascismo e fuori dal fascismo, dentro la democrazia e fuori della democrazia, diventarono un bel racconto di storia italiana. Un giornalista sarcastico, che “sghignazzava per non singhiozzare”, come disse Indro Montanelli, suo allievo.

Fu Maestro, al di là delle sue scelte politiche. Prezzolini e Ansaldo, suoi estimatori, erano anagraficamente più grandi di lui. Eppure lo vedevano come un riferimento nuovo per la cultura italiana. Fascista in polemica col fascismo, borghese e poi antiborghese. Era un artista totale, dotato di una satira feroce. Grande direttore di quotidiani e riviste, pittore, grafico, scrittore, sceneggiatore, scopritore di talenti. Longanesi faceva e poteva tutto. Moderno e anti-moderno, fu tanto e il suo contrario. Un genio, capace di uno stile immediato, da sciabolata inferta. Era essenziale, sintetico. Frase breve, punto. I tempi erano perfetti. Graficamente fu un innovatore totale. Con Maccari e Morandi fondò un nuovo stile.

"Poi divenni fascista per tante piccole ragioni sentimentali, ma anche perché odiavo quel dottore, quella sua boria di piccolo borghese illuminato, quella sua volgarità di povero ateo; odiavo in lui, nella sua barba rossiccia, nel suo sguardo crepuscolare, tutto il socialismo italiano, da De Amicis a Filippo Turati”. Longanesi sposò l’idea del Regime. Nel 1926, fondando “L’Italiano”, radunò alcuni dei migliori scrittori italiani: Moravia, Soldati, Buzzati. Amico di Leandro Arpinati, che lo sponsorizzava, fece della sua pubblicazione il ‘foglio della rivoluzione fascista’. Ma era un inganno. Da quelle pagine non si risparmiarono critiche sferzanti al governo. Ciò accadde, perché come ricordò Montanelli, quel Longanesi vedeva nel fascismo una matrice anarchica e, in secondo luogo, una convinzione, piuttosto contraddittoria, che il fascismo avrebbe restaurato un’Italia ‘strapeasana’, un'Italia delle radici. Quando si accorse che nulla di tutto questo era possibile, diventò un ‘frondista’, tra le righe, facendo maturare l’antifascismo, anche inconsapevolmente, dei suoi seguaci.

Nel 1950, diede vita a “Il Borghese”, periodico di politica, cultura e attualità, e ad una casa editrice, La Longanesi, che si distinse per la pubblicazione del primo racconto di Ernst Hemingway in Italia, interessandosi apertamente alla narrativa sovietica, e quindi a Goffredo Parise o Ennio Flaiano. Longanesi, terminato il periodo autoritario, fu dunque un precursore, come lo era stato nell’anteguerra, con quel giornalismo di ‘rotocalco’ che negli successivi emergerà fino ai nostri giorni.

Un istinto naturale, quello dell'autore nato a Bganacavallo il 30 agosto del 1905, che era iniziato giovanissimo, scrivendo per “L’Assalto”, organo ufficiale della federazione fascista di Bologna, o “Il Selvaggio”, la rivista di Mino Maccari,  con il quale ebbe una sintonia perfetta sul modo di fare satira. Tuttavia è durante gli anni della sua maturazione che Longanesi lascia la vera grande impronta. Nel 1937, infatti, dà vita a “Omnibus”, il papà di settimanali come “Il Mondo” e “L’Espresso”. All’interno della rivista ogni fotografia è un articolo a sé, un ritratto, un significato. Instagram negli anni del fez. La linea della rivista è però troppo avanti e sarcastica per la stampa fascista. Scomoda per gli intransigenti, i neoconservatori, i perbenisti. Ha una vita breve. Nel gennaio del 1939 Savinio scrive che Giacomo Leopardi era “morto di cacarella a Napoli per aver ingerito gelati in alcune caffetterie poco pulite”. Scoppia un putiferio. Prefetto e federale della città partenopea protestano dal Duce. E “Omnibus” viene chiuso. Subito dopo se ne andrà in Libia dal suo amico Italo Balbo.

Caduto Mussolini, si deve adeguare, passare la nottata. “Come tramandare ai posteri la faccia di Farinacci – aveva scritto nelle sue memorie - quando in divisa sa gerarca scende dalla macchina e mi dice: “Un giorno o l’altro bisognerà risolvere il problema di Venezia. E’ ridicola quell’acqua malsana che stagna tra i canali. Ci vogliono strade larghe, per automobili”.

Assieme a Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti, firma l'articolo di fondo su Il Messaggero in cui si celebra il ritorno alla libertà. Dopo l'8 settembre 1943, insieme al padre, a Steno e Mario Soldati arriva fino a Napoli, occupata dagli Alleati, dove si dedica ad una rubrica radiofonica: ‘Stella bianca’. Annota: “Tutti si agitano, si affannano, si intrufolano, in mille modi nei luoghi più impensati. Chi studia l'inglese, chi spinge la moglie nelle anticamere dei comandi, chi passa da un partito all'altro nell'incerto pensiero di non saper chi trionfi; chi raccoglie testimonianze false sulla propria onestà politica per accusare l'antico compagno. Tutti i partiti si rubano di tasca i programmi, e tutti vogliono fondare nuovi partiti”. Poi analizza: “Perdere una guerra è una cosa disastrosa, ma non è un fatto irrimediabile. Sotto certi aspetti, è bene anche perderne qualcuna di guerre, ma è un errore lamentarsene e dimenticarsene. Il vero guaio è che non abbiamo perduto abbastanza: ci sentiamo quasi vincitori”. Dopo il ritorno a Roma, decide di trasferirsi a Milano, la capitale vera dell'imprenditoria.

Anni prima, negli anni ’40, mentre dirigeva la direzione della collana 'Il sofà delle muse' per Rizzoli, aveva pubblicato ‘Il deserto dei tartari’ di Dino Buzzati. Longanesi in quel periodo, forse, si sentiva così: in attesa di vedere un nemico che non arrivava. Allora inventò una nuova impresa. Fondò la sua casa editrice: la Longanesi & C. Eleganza grafica, autori scelti, cultura eclettica. Tra i suoi giovani allievi, da Montanelli a Moravia, anche Arrigo Benedetti, Giovanni Ansaldo, Piero Buscaroli, Mario Soldati, Ennio Flaiano, Dino Buzzati, Vitaliano Brancati e Alberto Savinio. Nel 1950 diede anima al settimanale “Il Borghese”: raffinato, politicamente scorretto. Tra i suoi collaboratori anche Giuseppe Prezzolini, il fondatore de “La Voce”, punto di riferimento di una generazione prima della Grande Guerra.

Aveva ancora tante idee che gli frullavano per la testa quando lo colse un infarto nel suo studio. Morì sul campo, in fondo. Aveva 52 anni. Al cimitero nessuna cerimonia o discorso. L'ultimo atto, senza fronzoli, di un uomo che aveva visto, attraverso la parete del tempo, il nostro futuro. "La miseria - scriveva in 'La sua Signora"- è ancora l’unica forza vitale del Paese e quel poco o molto che ancora regge è soltanto frutto della povertà. Bellezze dei luoghi, patrimoni artistici, antiche parlate, cucina paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custodite soltanto dalla miseria. Dove essa è sopraffatta dal sopraggiungere del capitalismo, ecco che si assiste alla completa rovina di ogni patrimonio artistico e morale. Perché il povero è di antica tradizione e vive in una miseria che ha antiche radici in secolari luoghi, mentre il ricco è di fresca data, improvvisato, nemico di tutto ciò che lo ha preceduto e che l’umilia. La sua ricchezza è stata facile, di solito nata dall’imbroglio, da facili traffici, sempre o quasi, imitando qualcosa che è nato fuori di qui. Perciò quando l’Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga, noi ci troveremo a vivere in un paese di cui non conosceremo più né il volto né l’anima".

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