Cesare Zavattini, la poesia della parola che passa all'azione. Un genio pieno di fantasia

Pubblicato: Venerdì, 20 Settembre 2019 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Il 20 settembre 1902 nasce lo sceneggiatore che ha segnato un’epoca e reso grande l’Italia a livello internazionale

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“Il mio sogno è questo: si alza il sipario, ci sta la sedia e ci sto io”. Cesare Zavattini (Luzzara, 20 settembre 1902 – Roma, 13 ottobre 1989) è stato un personaggio inedito. ‘Sceneggiatore, giornalista, commediografo, scrittore, poeta e pittore’, dicono le biografie. In realtà era altro. Era tutto un mondo che roteava e schizzava in qua e là alla ricerca della fantasia.

Zavattini mangiava alle ore più insolite, a volte si dimenticava del pranzo o della cena preso come era dalle sue idee. Aveva un segreto: la sua voce profonda sembrava farsi incerta e acuta al momento della riflessione, poi tornava guizzante, precisa, evocativa. Collezionava quadretti ‘8x 10’. Ne aveva migliaia. L’interesse per l’arte pittorica fu per lui una folgorazione che lo portò a dipingere e a circondarsi per tutta la vita di quadri. “Che gioia profonda mi danno i quadri, se avessi soldi non farei altro che comprare quadri”, diceva. Ne raccolse quasi 1500, in una collezione unica soprattutto per il formato. La raccolta, iniziata nel 1941, trovò spazio nella casa romana di via Sant’Angela Merici, le cui pareti si rivestirono completamente di una tappezzeria di piccole nature morte, soggetti astratti, paesaggi, ritratti, autoritratti. Così per anni fu circondato da Fontana, Burri, Balla, De Chirico, Severini, Rosai, Sironi, Soffici, De Pisis, Depero, Guttuso, Manzù, Schifano e altri. Purtroppo fu costretto a vendere questo compendio della pittura di un secolo. Fu bello, comunque, vederla tutta insieme dentro le stanze di un autentico genio che aveva trovato i suoi natali a Luzzara. Il suo racconto cominciò da lì, in un posto che Petrarca citava e definiva una ‘palude piena di zanzare’. Lui raccontava l’aneddoto e se ne divertiva.

Una volta, nella sua Luzzara, portò la televisione nel cimitero. Lo guardava senza pensieri tristi, con molta naturalezza, scrutava le fotografie di chi era morto durante l’anno. “Pensavo fosse in piazza, invece è qui”, diceva. Un’intervista, seduto sulle tombe, in confidenza con una condizione che lo portava ad esprimere emozioni, immaginazioni, riflessioni. Se non ci fosse stato lui, forse sarebbe più anonima Luzzara, Ma sarebbe sempre Po, con il carattere del Grande Fiume. Una città che aveva vissuto dominazioni, povertà, faticose resistenze alle guerre e alle piene. Zavattini era parte di quella terra e lo fu profondamente.

Da giovane proseguì gli studi a Bergamo. Poi andò a Roma e frequentò la Sala Umberto e il Salone Margherita dove vide il grande Fregoli. A venti anni si trasferì a Parma e si iscrisse all’Università. Istruttore di collegio, conobbe Attilio Bertolucci e Giovannino Guareschi. Entrò ne ‘La Gazzetta di Parma’. Pubblicò 130 racconti di umoristi europei tradotti da ragazzi di 16 o 17 anni. Un laboratorio di giovani.

Poi arrivò Milano, capitale dell’editoria, all’inizio degli anni trenta. ‘Ero carico di passioni’, disse. Il suo mito era Chaplin. Buttò giù il suo primo libretto, ‘Parliamo tanto di me’, che si tradusse in un successo di critica strepitoso. Rizzoli lo promosse alla direzione dei suoi settimanali.

Zavattini era animato da un mondo fantastico. Per i ‘I poveri sono matti’ Henry Fust lo paragonò a Dostoyevsky. Geniale animatore d'idee e animatore di movimenti, dissacratore costante, affermava di avere il ‘Complesso del caffettiere’, ereditato dalla sua famiglia di commercianti, poiché sempre disponibile con gli altri. Era diviso tra il desiderio di scrivere e il desiderio di vivere. 

Nel 1936 fondò il 'Bertoldo', rivista satirica di cui fu anche direttore. Passò poi alla Mondadori. La sua attività di narratore satirico, ironico, ebbe la capacità di non farsi inquadrare nelle "correnti" del Novecento. Era lui stesso un fenomeno particolare nell'ambito della cultura italiana. Affascinato sin da giovane dal cinema, oltre alla produzione letteraria a metà degli anni trenta cominciò a dedicarsi alla complessa realtà di soggettista e sceneggiatore. Incontrò poco prima della seconda guerra mondiale Vittorio De Sica, con cui realizzò una ventina di film, tra i quali Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano , Umberto D.. Uno strepitoso sodalizio.

Zavattini ha avuto anche il merito di saper collaborare con altri registi. Basti ricordare il lungo elenco di film a lui legati: '4 passi fra le nuvole' di Alessandro Blasetti, ritenuto un caposaldo del neorealismo, 'I bambini ci guardano', 'Bellissima' di Luchino Visconti, 'Mamma mia, che impressione!', 'Il cappotto' per la regia di Alberto Lattuada, 'Roma ore 11' di Giuseppe De Santis, 'La ciociara', 'Ieri, oggi, domani', 'I girasoli'. Collaborò anche con Michelangelo Antonioni, Mauro Bolognini, Mario Camerini, Federico Fellini, Pietro Germi, Mario Monicelli, Elio Petri, Dino Risi, Roberto Rossellini, Mario Soldati, Damiano Damiani.

Nel 1952 realizzò un progetto con il fotografo statunitense Paul Strand per raccontare la vita quotidiana di un paese italiano come specchio dello spirito di un popolo. Si chiamerà ‘Un paese’. È considerato uno dei classici della fotografia. Si cimentò poi nella poesia, con ‘Toni Ligabue’ (1967) sul pittore Antonio Ligabue e a Stricarm' (Stringermi in una parola), nel dialetto della sua terra.

Nel 1976 accettò l'invito da parte di Radio Rai di condurre una trasmissione: ‘Voi ed io’. In una delle puntate annunciò: “Adesso dirò una parola che finora alla radio non ha mai detto nessuno: Cazzo”. Una delle sue uscite spiazzanti che lo divertivano tanto e che raccontano la sua continua voglia di sperimentare le reazioni, comprendere gli stati d’animo, analizzare l’altro anche nella sorpresa.

Interessato ai cambiamenti della società e della politica, contribuì alla fondazione dell'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, creatura documentale a cui teneva molto e che guidò fino alla morte.

Nel 1981, quasi ottantenne, elaborò una creatura tutta sua, ‘La veritaaaà’, dove interpretò una sorta di pazzo che sfidava tutti, dalla televisione fino al Papa. Antonio, il protagonista, è un folle chiuso in manicomio già da qualche anno. Ad un certo punto evade perché vuole andare tra la gente e propagandare la sua idea fissa: intervenire subito per cambiare il mondo. Viene arrestato dalla polizia, ma viene liberato. A piazza Venezia, sul famoso balcone, costringe la folla a vomitare tutte le parole rivelatesi per secoli e secoli inutili, anche la parola “pace”, tra le più consumate e meno comprese. “Perchè la “pace” si può ottenere soltanto con un pensiero che sia frutto della collaborazione di tutti e non di pochi, come adesso...” , spiegò. Così Antonio ha l’ardire di aprire “Il canale degli italiani, il canale della Verità” e di approfondire il tema del pensiero: “Pensare è faticoso, tutti cercano le scorciatoie. La guerra è la peggiore delle nostre pigrizie. Si muore perché non si pensa. Pensare è già la Pace”.

Era un uomo che sapeva fare della fantasia un modo per entrare nel cuore di tutte le situazioni. La morte lo colse ancora attivo, ottantasettenne, il 13 ottobre 1989.

Aveva detto: “Per me cultura significa creazione di vita”. Una promessa mantenuta, una missione realizzata.