Beatrice Cenci, il supplizio di una ragazza e il terrore del suo tempo

Pubblicato: Mercoledì, 11 Settembre 2019 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Un fatto di cronaca che ha ispirato pittori, commediografi e registi nel corso dei secoli

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L’11 settembre del 1599 a Roma migliaia di persone sono assiepate nei pressi di Castel Sant’Angelo. Si sono radunate per guardare un evento atteso, in quel tempo: lo spettacolo della morte.

Sono tutti lì: in strada, sui marciapiedi, alla spicciolata per le vie, sulle carrozze, sui balconi, alle finestre dei palazzi. Seguono il trasporto verso il patibolo del carro che raduna la famiglia Cenci, una delle più in vista della città. E come normale che sia in tutte queste circostanze umane, la folla è pervasa da compassione e rabbia, paura a accusa, pietà e sete di vendetta.

Nobiltà e popolo: non ci sono divisioni sociali che tengano davanti all’attesa dell’esecuzione. Tra coloro che testimoniano la loro presenza ci sono anche due pittori: il grande Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio, e Artemisia Gentileschi. Nei momenti dell’affollamento maggiore ben dodici persone perdono la vita, schiacciate nella calca, per malore o affogate nel Tevere.

Beatrice, la bella ragazza accusata e condannata di parricidio, si appresta ad essere uccisa con un colpo di mannaia che le taglierà la testa. Non dice una parola. La folla la fissa, la scruta, la giudica, poi scende nel silenzio. Vicino a lei la matrigna Lucrezia Petroni e il corpo già percosso del fratello di Beatrice, Giacomo. Durante il tragitto verso il Castello è stato ‘mazzolato’ sulla testa, torturato con delle tenaglie roventi. Si appresta a subire il supplizio feroce e agghiacciante dello squartamento. Lucrezia, non sopportando la scena, sviene. Il fratello minore di Beatrice, Bernardo, è costretto ad assistere alla morte dei suoi familiari legato ad una sedia.

La prima decapitazione è quella di Lucrezia. Poi tocca a Beatrice, 22 anni. Poco prima dell’atto conclusivo della sua esistenza, secondo le cronache, sussurra una preghiera e bacia un crocifisso. Il boia, annoterà un testimone, “intimorito si trovò impacciato a vibrarle la mannaia. Un grido universale lo imprecava, ma frattanto il capo della vergine fu mostrato staccato dal busto, ed il corpo s’agitò con violenza. La testa di Beatrice fu involta in un velo come quella della matrigna, e posta in lato del palco; il corpo nel calarlo cadde in terra con gran colpo, perché si sciolse dalla corda”. Il cadavere della ragazza, come lei stessa aveva chiesto, viene sepolto in un loculo davanti all'altare maggiore di San Pietro in Montorio, sotto una lapide priva di indicazioni.

Alcuni racconti relativi ai momenti dell'esecuzione sono rintracciabili nelle "Memorie romanzate di Giambattista Bugatti" detto Mastro Titta, boia dello Stato Pontificio dal 1796 al 1864 (Leggi - Se Mastro Titta “passava ponte”. Il 'Boia di Roma' e la sua vita normale)

I FATTI - I Cenci erano stati condannati da Papa Clemente VIII per l’uccisione del conte Francesco Cenci, padre di Beatrice. Un delitto premeditato per far terminare la serie di violenze di un uomo malvagio, descritto come brutale e perverso, coinvolto in numerose risse e finito più volte a processo per violenze sessuali e pedofilia. Tuttavia era sempre riuscito a comprarsi la sua assoluzione.

La figlia maggiore Antonina scrisse direttamente a Clemente VIII per sfuggire agli abusi. Il pontefice ne accolse la richiesta combinandole un matrimonio con un esponente della nobiltà di Gubbio. Si narra che, esasperata dalle violenze e dagli abusi sessuali, Beatrice era giunta alla decisione di organizzare l'omicidio del padre con la complicità della matrigna Lucrezia, seconda moglie di Francesco, i fratelli Giacomo e Bernardo, il castellano Olimpio Calvetti ed il maniscalco Marzio da Fioran detto il Catalano.

Dopo i fatti legati ad Antonina, infatti, Beatrice e Lucrezia erano state chiuse in un castello, la rocca di Petrella, ove avevano subito nel tempo sevizie e percosse. Per due volte il tentativo di uccidere l’aguzzino era fallito: la prima volta con il veleno, la seconda con un'imboscata di briganti. Nel corso della terza, stordito dall'oppio, Francesco fu assalito nel sonno e ucciso con colpi di chiodi e martello al cranio ed alla gola. Per nascondere il delitto i congiurati tentarono di simulare un incidente. Il corpo della vittima fu trovato in un orto, dopo averlo gettato da un davanzale. Dopo i funerali, fu sepolto nella chiesa di Santa Maria. I familiari lasciarono il castello e tornarono a Roma nella dimora di famiglia, Palazzo Cenci, nei pressi del Ghetto.

Non ci volle molto agli investigatori mandati dal viceré del Regno di Napoli e dal Vaticano per capire che quello non era un incidente. Riesumato il cadavere, vennero rinvenuti i segni delle martellate sul cranio e alcuni buchi nel collo.

Il processo fu affidato al giudice Ulisse Moscato. L’evento ebbe un enorme impatto nella società dell’epoca.

Nel dibattimento si affrontarono due grandi avvocati: Pompeo Molella per l'accusa e Prospero Farinacci per la difesa. Il primo, nel tentativo di alleggerire la posizione della giovane, accusò Francesco di aver stuprato la figlia, ma Beatrice nelle sue deposizioni non volle mai confermare gli abusi. Alla fine prevalsero le tesi accusatorie, le torture e gli imputati superstiti vennero tutti giudicati colpevoli e condannati a morte.

Il processo, secondo gli storici, fu compromesso da vizi procedurali, tra i quali quello di impedire all'avvocato difensore la pronuncia della sua arringa conclusiva. Cardinali e difensori inoltrarono richieste di clemenza al pontefice, ma furono respinte. Bernardo, il fratello minore, pur non avendo partecipato attivamente all'omicidio, fu condannato per non aver denunciato il complotto: gli fu imposta la pena dei remi perpetui (ovvero remare per sempre sulle galee pontificie) e obbligato ad assistere all'esecuzione dei congiunti. Alcuni anni più tardi, dopo il pagamento di una grossa somma di denaro, ottenne la libertà.

Clemente VIII, che un anno dopo farà ardere pubblicamente Giordano Bruno (Leggi - 17 febbraio 1600: il rogo di Giordano Bruno. “Ho lottato, è molto; ho creduto nella mia vittoria”), era inoltre il beneficiario naturale della confisca dei beni dei Cenci. Questa motivazione, più la preoccupazione che un eventuale grazia determinasse una serie di denunce per le violenze perpetrate nel territorio da lui governato all’interno della nobiltà, rese la sentenza scontata, tanto che venne emessa ancor prima di pronunciare l’arringa difensiva.

Alla fine gli imputati confessarono tutti, anche a causa delle torture subite.

Nel 1798, durante la prima Repubblica Romana, i soldati francesi che avevano occupato la città si abbandonarono a razzie di ogni tipo. Furono violate anche le tombe per impossessarsi del piombo delle casse. Il pittore Vincenzo Camuccini assistette ad un episodio agghiacciante mentre lavorava al restauro della Trasfigurazione di Raffaello: alcuni soldati, entrati nella chiesa di San Pietro in Montorio, iniziarono a spaccare le lastre dei sepolcri poste sul pavimento. Uno di loro aprì la cassa di Beatrice e s'impossessò del vassoio d'argento sul quale era stata deposta la testa della giovane. Preso il teschio, nonostante le vibranti proteste di Camuccini, il profanatore si allontanò lanciandolo in aria per divertimento.

Il processo e l’esecuzione influenzarono anche artisti e intellettuali: Shelley, Dumas, Moravia, Guido Reni, Nino Rota, Mario Camerini e Lucio Fulci, tra gli altri, si sono occupati a modo loro, nel corso dei secoli, di un momento storico di morte, vendette, supplizi e terrore.