Alfonso Gatto e la poesia eternamente in viaggio: ‘I miei occhi mi lasciano partire e mi aspettano calmi con la sera”

Pubblicato: Mercoledì, 17 Luglio 2019 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI - Nasceva il 17 Luglio 1909 un capolavoro di artista e di intellettuale

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Partiva e ritornava di continuo, Alfonso Gatto (Salerno, 17 luglio 1909 – Orbetello, 8 marzo 1976). Con la mente, con le parole, con le sue visioni, la sua realtà. Come tutti i poeti era padre e figliol prodigo. Sognava, lottava, aveva impeto e quiete. Nelle sue immaginazioni, nei suoi versi. E così fu anche la sua vita. Mai vuota, piena di amore. Con il suo cuore e le sue solitudini. Era impetuoso e tenero. Un poeta moderno,  che conosceva le radici del passato.

‘I miei occhi mi lasciano partire e mi aspettano calmi con la sera nella povera stanza di un albergo”, scriveva. Cercò una vita diversa. Nel suo errare per città e per lavori, storie ed esperienze, si immerse – come lui stesso lo definì – in ‘un dolce e lungo errore’. Una traiettoria esistenziale, la sua, che lo aiutò a costruire l’uomo che maturò negli anni. Intellettuale, partigiano, giornalista. Poeta, sopratutto, originale e sensibile, e anche pittore. Un contemporaneo che seppe farsi apprezzare, vincere tutti i premi più importanti.

Pur conoscendo il merito, fu semplice nella sua conduzione della vita. Aveva grazia, aveva stile. Visse in dimore provvisorie. Cambiò tante case, in tante città. A Roma se ne stava in Via Margutta, in una piccola abitazione. Si ammantava di povera felicità. Ma prima ancora aveva vissuto affacciato sui Fori, poi nei pressi della Scalinata di Piazza di Spagna, camminando per Via del Sebastianello, Piazza del Popolo, il Pincio. Una città che diceva di non amare, Roma, ma a cui aveva dedicato poesie bellissime.

Inverno a Roma

 I bambini che pensano negli occhi

hanno l' inverno, il lungo inverno. Soli

s' appoggiano ai ginocchi per vedere

dentro lo sguardo illuminarsi il sole.

Di là da sé, nel cielo, le bambine

ai fili luminosi della pioggia

si toccano i capelli, vanno sole

ridendo con le labbra screpolate.

Son passate nei secoli parole

d' amore e di pietà, ma le bambine

stringendo lo scialletto vanno sole

sole nel cielo e nella pioggia. Il tetto

gocciola sugli uccelli della gronda.

Corrado Alvaro, suo amico, lo incontrava in questo tragitto del centro storico (leggi: Corrado Alvaro, il Meridione, l’uomo e la distopia: percorsi di un grande scrittore ). Poteva capitare, in quel tempo, di incontrare anche due giganti della letteratura a passeggio. Come ospiti, come cittadini.

Ma Alfonso Gatto è stato anche Salerno, la sua Salerno. I suoi natali. Il mare. Le prime poesie. Un invito all’avventura. I tempi di Montale, suo amico, e di Ungaretti, un estimatore appassionato. La memoria, la luminosità, i paesi, l’amore alla vita. Nacque nella città vecchia e popolare, il narratore di emozioni: le case della passeggiata lungo il mare, i balconi, le scalinate, le inferriate, la vecchia città, i Caffè che facevano da ritrovo, la giovinezza. L’approdo, la nostalgia, il sol, le vigne, la campagna, la partenza. Ma anche la conoscenza della fine immatura che coglie la fanciullezza del fratello Gerardo. “Io credo che la serena contemplazione della morte sia il vino dei poeti, il loro modo di ubriacarsi della vita’, disse. Poi le litiche alla madre, al padre. Un canto che lui metteva in forma di poesia. Intensa, straordinaria.

Gatto fu il poeta dei pensieri che se ne vanno in lontananza, delle sofferenze profonde, dei ritratti dei luoghi in cui viveva e che ammirava: “L’erba, il silenzio, il muovere dell’ombra/ Soli, nel pianto tuo della mattina,/l’erba, il silenzio, il muovere dell’ombra/ e gli steli del vento. Il tuo sollievo/è di vederti calma nell’attesa/ch’io giunga da lontano, il tuo riposo/è la speranza d’incontrarci a sera/per caso in un inverno./Lasciarti per sparire,/per essere il tuo cielo dove guardi/senza rimorsi, avere il tuo rimpianto,/la tua memoria, le tue mani vuote…/Forse è più dolce piangermi che avermi”.

Nacque a Salerno, abbiamo detto, il 17 luglio del 1909. La sua infanzia e la sua adolescenza furono travagliate. Fratello del pittore Alessandro Gatto, scoprì al Liceo la propria passione per la poesia e la letteratura. Nel 1926 si iscrisse all'Università di Napoli che abbandonò qualche anno dopo a causa delle difficoltà economiche. Sposò la figlia del suo professore di matematica, Agnese Jole Turco, con la quale, partì per Milano. Ebbero due figlie, Marina e Paola. Nel capoluogo lombardo, dove risiedette dal maggio del 1934, tra i suoi amici più assidui vi furono Cesare Zavattini, Leonardo Sinisgalli, Orazio Napoli. Fu commesso di libreria, istitutore di collegio, correttore di bozze, giornalista, insegnante. Nel 1936 fu arrestato per la sua attività di antifascista e trascorse sei mesi nel carcere di San Vittore. Durante quegli anni Gatto collaborò a numerosi periodici e riviste: Italia letteraria, Rivista Letteratura, Primato. A Milano era un giovane meridionale di diverse preoccupazioni e occupazioni. Visse la città e con la città. L’inesperienza si fece tra quelle vie e quelle piazze esperienza e alla fine Milano fu da lui amata come una città materna, ove riscosse grandi sofferenze ma anche grandi vittorie, come il Premio Bagutta nel 1955.

Sono gli anni dell’amicizia con Edoardo Persico, amico di Piero Gobetti (leggi: Piero Gobetti, il giovane intellettuale che fu liberale fino alla morte: “Cosa ho a che fare io con gli schiavi ?”), operaio nella Fiat, che fondò una propria casa editrice e sostenne un gruppo di artisti che saranno noti come i "Sei di Torino". Trasferitosi a Milano, fondò la galleria del Milione e nel 1931 e aderì al Movimento Razionalista. Creatore di arredi di interni e allestimenti per esposizioni, venne trovato morto nella sua casa nel gennaio 1936, in circostanze misteriose e anomalie che furono indagate negli anni successivi da altri autori e storici.

Gatto, con la collaborazione di Vasco Pratolini, fondò a Firenze la rivista 'Campo di Marte', ma il periodico durò un solo anno. Fu comunque questa una esperienza significativa per il poeta, che ebbe modo di cimentarsi nella letteratura militante . Nato con l'intento di educare il pubblico a comprendere la produzione artistica in tutti i suoi generi, 'Campo di Marte' si ricollegò al cosiddetto ermetismo fiorentino, nella ricerca di un’arte che intervenisse sulla realtà e il popolo.

Firenze fu per Gatto una città fondamentale, nella quale si immedesimò con la sua capacità camaleontica di adattarsi. Frequentò Montale (leggi: Preferire i ragazzi che cercano, nelle pozzanghere, qualche sparuta anguilla. Eugenio Montale e la sua poesia) Ottone Rosai, Berto Ricci, soprattutto Vasco Pratolini. Se ne stava nei quartieri popolari, tra le trattorie, conoscendo il profumo della città e delle persone. Nel 1941 ricevette la nomina a ordinario di Letteratura italiana, presso il Liceo Artistico di Bologna e iniziò una collaborazione con la rivista 'Primato' di Giuseppe Bottai, fucina e rifugio di talenti, sulla quale pubblicò con poesie e recensioni letterarie. Nel 1944, iscrittosi al PCI, iniziò a collaborare a Rinascita  e, dopo la liberazione di Milano, nell'aprile 1945, all'Unità.

Scrisse in quei giorni questa poesia:

La chiusa angoscia delle notti, il pianto

delle mamme annerite sulla neve

accanto ai figli uccisi, l’ululato

nel vento, nelle tenebre, dei lupi

assediati con la propria strage,

la speranza che dentro ci svegliava

oltre l’orrore le parole udite

dalla bocca fermissima dei morti

liberate l’Italia, Curiel vuole

essere avvolto nella sua bandiera”:

tutto quel giorno ruppe nella vita

con la piena del sangue, nell’azzurro

il rosso palpitò come una gola.

E fummo vivi, insorti con il taglio

ridente della bocca, pieni gli occhi

piena la mano nel suo pugno: il cuore

d’improvviso ci apparve in mezzo al petto.

Eugenio Curiel era un fisico italiano un partigiano e fisico italiano. Fu a capo del Fronte della gioventù per l'indipendenza nazionale e per la libertà, insignito della Medaglia d'Oro al Valor Militare alla memoria. Il 24 febbraio 1945 fu riconosciuto per strada a Milano da soldati delle dalle Brigate Nere durante un controllo di documenti. Fuggì di corsa attraverso piazzale Baracca. Una raffica di mitra lo colpì ad una gamba. Si rialzò e riprese la corsa fino a quando fu raggiunto da alcune raffiche che lo uccisero. Gatto lo volle ricordare come un emblema da rispettare. Più tardi, nel 1951,  si dimise dal partito e diventò un comunista "dissidente". Era soprattutto un viandante povero e solitario della poesia.

Nel frattempo aveva incontrato la donna che aveva cambiato la sua vita, la pittrice triestina Graziana Pentich, per la quale abbandonò la moglie e le figlie e da cui ebbe due figli, Teodoro e Leone. Il primo morirà prematuramente. Graziana, dopo la morte del poeta Alfonso e di quella, successivamente, del figlio Leone, raccoglierà la loro memoria nel commuovente “I colori di una storia”.

Gatto era un grande amante dello sport, del ciclismo in particolare, ma non era mai riuscito ad andare in bici per paura di cadere. Fausto Coppi lo avvicinò per imparare ad andare sui due pedali. Si incontrarono, parlarono delle loro vita, ma nonostante l'aiuto di cotanto istruttore, l'impresa non andò in porto. Amava anche il calcio. Una volta, in una lettera al suo idolo, Gianni Rivera, scrisse: “Il calcio è come una poesia, un gioco che vale una vita. Anche il poeta ha il proprio campo verde, ove parole, colori, suoni vanno verso l’esito felice. Fa anche lui gol o lo lascia fare, dando spazio alle ali, al lettore che gli cammina al fianco e che entra in porta con lui, nella felicità di aver colpito nel segno”.

Dopo la terribile alluvione che colpì Salerno (leggi: L’alluvione del 1954 e la ‘lezione di Salerno’. Il dramma rimosso che non è servito a mettere in sicurezza l’Italia )  raccontò con grande partecipazione e dolore la sua terra così martoriata.

L'8 marzo del 1976 si mise in viaggio lungo l'Aurelia diretto a Roma, a bordo di una Mini Minor alla cui guida si trovava Paola Maria Minucci. L'auto finì fuori strada nei pressi della Torba di Capalbio. Spirò poco dopo le quattro del pomeriggio mentre si trovava nell'Ospedale di Orbetello. È sepolto nel cimitero di Salerno. Sulla sua tomba è incisa una frase dell'amico Montale: “Ad Alfonso Gatto per cui vita e poesie furono un'unica testimonianza d'amore". Non molto prima di morire, rivelò in un'intervista: “Io credo, finché vivo e finché vivrò, che più importante della mia poesia sia la mia vita. Una vita da salvare fino all'ultimo. Che ci permetta di scendere in quel giorno della nostra morte, senza viltà. Io non credo di aver mai commesso viltà.”.

Fu orgoglioso, unico, e fece dono di sé al mondo, agli uomini e all’amore. ‘Ritornerà sul mare/la dolcezza dei venti/ a schiuder le acque chiare/ nel verde delle correnti’.