Vittorio De Sica, il gigante che cambiò il cinema e fece grande l’Italia. Il racconto della dignità umana e della verità

Pubblicato: Domenica, 07 Luglio 2019 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Il 7 Luglio del 1901 la nascita a Sora del grande attore e regista

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Vittorio De Sica (Sora, 7 luglio 1901 – Neuilly-sur-Seine, 13 novembre 1974) non è stato solamente un attore, un regista e uno sceneggiatore. E' stato un genio poliedrico che ha saputo letteralmente tracciare uno spartiacque nella storia del cinema mondiale attraverso la fantasia, la sensibilità, la modernità, la raffinatezza dello stile, la verità.

Nato a Sora, all'epoca ancora parte della provincia campana di Terra di Lavoro, visse – come dichiarò lo stesso autore più tardi - una "tragica e aristocratica povertà". Si trasferì con i familiari a Napoli e, dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, a Firenze. A 15 anni le prime esibizioni come attore dilettante, in piccoli spettacoli organizzati per i militari ricoverati negli ospedali. Giunto a Roma, ottenne un piccolo ruolo in un film muto diretto da Alfredo De Antoni, Il processo Clémenceau, del 1917. Dopo aver preso il diploma di ragioniere, finì per due anni nella compagnia di Tatiana Pavlova, poi divenne secondo attore brillante nella compagnia di Italia Almirante, diva del muto, e ancora secondo attor giovane nella compagnia di Luigi Almirante, Sergio Tofano e Giuditta Rissone.

Sono periodi di lunga formazione, che nel 1930 sfociano nel ruolo di primo attore. Mario Mattoli, titolare della Compagnia Teatrale Za-Bum, intuì le sue qualità e lo scritturò al fianco di Umberto Melnati, con in quale formò una coppia comica di grande popolarità con con gag e tormentoni che li resero celebri a livello nazionale. Tra questi, la canzone ‘Lodovico sei dolce come un fico’ e gli sketch radiofonici del ‘Dura minga’. Un film, ‘Gli uomini… che mascalzoni’, di Mario Camerini, lo portò al successo. E' la pellicola passata alla storia anche per la canzone 'Parlami d'amore Mariù', brano musicale del 1932, interpretata dallo stesso De Sica, che ebbe enorme diffusione nazionale.

Dopo il successo del film, Vittorio diventa attore di punta di quel cinema 'dolciastro', di ‘telefoni bianchi’, borghese, sentimentale,  spesso dal lieto fine, che rispondeva a certi canoni imposti dal regime fascista fino a quando, con la fine degli anni trenta e l’inizio degli quaranta, cambiò tutto. Anche all’interno di Cinecittà iniziarono a circolare quei sentimenti di nuova concezione cinematografica a cui De Sica stesso, diventando regista, iniziò a guardare con interesse modificando i suoi concetti e la sua visione sulla quotidianità.

Nell'immediato dopoguerra, sempre più assorbito da impegni cinematografici e televisivi, abbandonò gradualmente anche i suoi impegni teatrali. Tra il 1923 e il 1949, aveva preso parte, tra commedie, spettacoli di rivista e drammi in prosa, a oltre 120 rappresentazioni. Gli erano comunque serviti non solo sul piano dell’esperienza e della popolarità, ma anche come potente e imponente architettura del suo capolavoro più ricercato: quello alla regìa.

Alla fine della seconda guerra mondiali abbandona definitivamente l’immagine dell’attore smilzo e imbrillantinato e diventa impegnato innovatore, protagonista sociale, interprete dell’Italia profonda del dopoguerra, delle sue trasformazioni, delle sue individualità disperate, delle sue solitudini. Prende gli attori presi dalla strada e avverte il bisogno di mettere in scena la realtà senza artificio, gli umili e i perdenti, la denuncia sociale e profonda. Assieme a lui Rossellini, gli sceneggiatori Zavattini e Amidei, altri registi come De Santis, Blasetti o Visconti.

Fu così che dietro la macchina da presa realizza ‘Ladri di Biciclette’ (protagonista l’operaio Lamberto Maggiorani). "Il mio scopo - dichiarò Vittorio De Sica - è di rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca, anzi nella piccolissima cronaca, considerata dai più come materia consunta. Che cos'è infatti il furto di una bicicletta, tutt'altro che nuova e fiammante, per giunta? A Roma ne rubano ogni giorno un bel numero e nessuno se ne occupa, giacché nel bilancio del dare e avere di una città chi volete che si occupi di una bicicletta? Eppure per molti, che non possiedono altro, che ci vanno al lavoro, la tengono come l'unico sostegno nel vortice della vita cittadina, la perdita della bicicletta è un avvenimento importante, tragico, catastrofico. Perché pescare avventure straordinarie quando ciò che passa sotto i nostri occhi e che succede ai più sprovveduti di noi è così pieno di una reale angoscia?".

Un percorso, questo, che era stato già intrapreso ne "I bambini ci guardano" (1942) e "Sciuscià" (1946). Con 'Ladri di Biciclette' il fine è la triste condizione dei disoccupati nel dopoguerra. Per questi ultimi due titoli il grande regista vince l'Oscar, portando così l’Italia ad un livello internazionale di assoluto valore e virando definitivamente un cinema conosciuto fino a dieci anni prima per le sue commedie rosa ad un panorama di tragiche profondità, di pietas verso gli umili, di progresso.

L’Italia, intanto, negli anni cinquanta cambia ancora e Vittorio De Sica ne è di nuovo l’interprete eccellente tornando con assiduità nelle vesti di attore. Con lui si respirano l’ingenuità, la speranza della ripresa, l’aria della ricostruzione, ma anche le miserie quotidiane e le difficoltà di vivere la giornata. Sono gli anni dell'allegro e spensierato ‘Pane amore e fantasia’ e del suo ‘Umberto D.’, ove si racconta la verità nascosta nella vicenda di un uomo anziano che non ha più voglia di vivere e vuole suicidarsi. Il regista diventa dunque il simpatico maresciallo dei Carabinieri di paese, ma conferma anche il suo talento enorme nel saper raccontare storie che qualcuno vorrebbe dimenticare o evitare. Un contraddittorio viatico popolare di grandi contrasti che lo portano ad interpretare la seria figura del Generale Della Rovere, ma anche ‘Il Segno di venere’ o 'Il Conte Max' con Alberto Sordi.

De Sica, così facendo, ha avuto però il merito di guidare tante fasi indimenticabili dell'arte contemporanea. Prima da ragazzo un po' guascone, 'sciupafemmine' e di buoni sentimenti di quelle pellicole anni trenta che gli favorirono una popolarità nazionalpopolare e trasversale, quindi come regista, con Cesare Zavattini, ove esplose in una creatività innovativa sia del linguaggio che delle immagini del neorealismo, infine nei virtuosismi e nelle raffinatezze che lo portarono, negli ultimi anni di vita, ad un nuovo Oscar grazie ad un film intenso come "Il giardino dei Finzi Contini", passando prima per il meraviglioso ‘Ieri, oggi e domani’.

Un artista di ampie capacità che aveva il grande dono di saper far ridere e di saper far piangere, di far pensare e di divagare, di farsi amare da Sophia Loren o Marcello Mastroianni, di dar vita a capolavori drammatici come "La Ciociara" e di saper dialogare con la letteratura e i suoi testi. La comicità, la drammaticità, il sogno, la realtà più crudele. Tutti sentimenti, questi, che in De Sica si sposarono e maturarono continuamente, anche alternandosi, ma senza essere banale, ammiccante nei confronti della platea pur donandosi ad essa con la massima cortesia ed educazione.

Patrimonio italiano e del mondo, ebbe la straordinaria intuizione di raccontare la provincia e la città, di disegnare gli isolati o i soggetti particolari dell'esistenza umana, l'emarginazione, le difficoltà di rialzarsi in piedi dopo le rovine della guerra, di fare teatro di rivista, di mettere in mostra, in sintesi, la vergogna, la dignità e il sorriso con la stessa identica sensibilità. Con la stessa poesia.

La stessa sensibilità che ci viene in mente pensando ad una memorabile scena di uno dei suoi film migliori, ''Miracolo a Milano'', dove la storia surrealista si sviluppa come una favola in una città che in quegli anni romba come un motore nel cuore della ripresa ed ha per protagonista un ragazzo orfano che sogna un mondo dove ''Buongiorno voglia davvero dire buongiorno''. E' proprio il giovane, che facendo amicizia con dei barboni, scopre l'amore e si fidanza. Guiderà lui, nel finale, in una piazza del Duomo affollata di netturbini a cui vengono rubate le scope, il generoso volo a cavallo delle stesse verso il cielo e verso quel mondo desiderato ed immaginato. Un modo di offrire agli ultimi la loro vittoria e la loro dignità, la speranza nell'avvenire e la giusta dimensione nella considerazione dell'umanità, a volte un po' troppo distratta. La scena del mitico decollo ispirerà in seguito anche Steven Spielberg per la sequenza dei ragazzini sulle biciclette volanti di ''E.T.''. Sta anche in questo l'affermazione dei giganti.