Ugo Tognazzi, l’attore che amava vivere in libertà

Pubblicato: Sabato, 23 Marzo 2019 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – 23 marzo 1922: nasce a Cremona uno degli attori più importanti della storia del cinema

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Una volta, nel 1980, si presentò a ‘Domenica In’, storica trasmissione pomeridiana della Rai, ed esordì, tra ironia e provocazione, con due domande rivolte a Pippo Baudo: “Perchè non parliamo della liberalizzazione della marijuana? Vogliamo parlare di Toni Negri? Perchè un giorno dovremo capire se il capo delle Brigate Rosse è lui o sono io”.

Ugo Tognazzi il gusto del colpo di fioretto o di sciabola lo teneva sempre con sé, buono per tirarlo fuori alla prima occasione utile. Due anni prima l’episodio dell’intervista a ‘Domenica In’, nel 1978, la rivista satirica "Il Male" aveva pubblicato una prima pagina 'farlocca' di alcuni quotidiani nazionali con una notizia bomba: "I capi delle Brigate Rosse sono Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi". La notizia si diffuse in tutta Italia e per qualche ora ci fu persino che ci cascò, ovviamente non senza sconvolgimento interiore.  Altri tempi, certo, ed altra Italia. L’aneddoto però fa comprendere quale fosse il carattere poliedrico di Ugo Tognazzi, attore libero e che amava vivere in libertà. A differenza dei colleghi, la sua vocazione a sperimentare lo spingeva, come lui stesso affermò adattando la metafora alla sua amata arte della cucina, a “rischiare che l'ospite desse un giudizio negativo, senza specializzarmi in soli tre piatti per farmi dire che sono un grande cuoco”.

Ugo Tognazzi (Cremona, 23 marzo 1922 -- Roma, 27 ottobre 1990) era un appassionato di calcio, della buona tavola e delle donne.

L’avanspettacolo, i grandi autori, una vita sentimentale dinamica. E' riuscito a legare le sue interpretazioni e il suo volto al boom economico, alla crisi, al tempo delle divise, della Marcia su Roma, alla miseria, alla mediocrità dell’uomo medio, agli umiliati, ai federali umani e goffi, agli omosessuali che non diventavano delle macchiette, al sesso, allo sberleffo. Qualcuno ha detto che è stato uno degli ultimi epicurei. “Non posso vivere senza pensare di fare l’amore. Ho l’impressione che il giorno che non lo farò più si aprirà una porticina nell’aldilà”, diceva. Era contro ogni forma di consuetudine. Da ragazzo voleva uscire dal ‘gregge’ - affermò – perché era circondato da figli di ferrovieri. Lui, invece, era figlio di assicuratore e si lanciò, per motivi di famiglia, nel mondo del lavoro abbastanza presto. Sognava e decise di fare l’attore, uscendo dal salumificio in cui lavorava. Recitò in una filodrammatica del dopolavoro aziendale, durante la seconda guerra mondiale venne chiamato alle armi e si dedicò a organizzare spettacoli di varietà per i commilitoni. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 ritornò a Cremona, dove fece l'archivista e militò - affermano alcune biografie - per un breve periodo delle Brigate Nere. Come tutti, con la fine della guerra, si dovette reinventare.

Nel 1945 la passione per lo spettacolo lo induce a trasferirsi a Milano e viene scritturato dalla compagnia teatrale di Wanda Osiris. Esordisce al cinema con un film diretto da Mario Mattoli, 'I cadetti di Guascogna', al fianco di Walter Chiari. L'anno seguente conosce Raimondo Vianello e con cui forma una coppia comica di successo che dal 1954 al 1960 lavora per la Rai nel varietà 'Un due tre', il primo esempio di satira televisiva che andò a sbeffeggiare anche le cariche dello Stato. La censura televisiva, allora incombente e letale, colpì inesorabilmente nel 1959 quando il duo Tognazzi-Vianello decise di prendere in giro un incidente occorso la sera prima alla Scala e in cui Giovanni Gronchi, presidente della Repubblica, cadde a terra per la sottrazione improvvisa della sedia. La sera stessa dello sketch Ettore Bernabei cancellò la trasmissione dalla programmazione. Questo era il clima.

Tognazzi era uno di quegli attori che trovava nell’ironia una formula di vita, e poi la voce, la gestualità, l’irriverenza dissacrante, la supercazzola, il fascino dell’insolenza. Negli anni di piombo rivendicò il “diritto alla cazzata”, ma sapeva anche ritirarsi nella sua casa di Velletri per contornarsi di amici e colleghi. Un rapporto viscerale con il cibo, il suo, che finirà al centro di alcune interpretazioni epiche, tra cui, per la regia di Marco Ferreri, la 'Grande Abbuffata' del 1973, ove un gruppo di persone sopraffatte da un nichilismo decide di suicidarsi ingurgitando cibo, chiusi in una villa in compagnia di alcune prostitute.

E' stato il ritratto di una personalità tormentata, estroversa, melanconica che, ma aveva anche mille curiosità. Era moderno e anticonformista, amava il nuovo e il fuori luogo. E’ stato un gigante, senza l’ambizione di esserlo. Il suo identikit di attore si palesa, su 160 film, in alcune pellicole che hanno letteralmente fatto la storia del cinema come ‘Il federale’, 'La voglia matta', 'La marcia su Roma', 'I mostri', 'La vita agra', 'Io la conoscevo bene', 'Il commissario Pepe', 'Venga a prendere il caffè da noi', 'In nome del popolo italiano', 'La proprietà non è più un furto', 'Romanzo popolare', 'Amici miei', 'Signore e signori, buonanotte', 'Il vizietto' o 'La tragedia di un uomo ridicolo'. Ma questo elenco di titoli, diretti da firme e regia di grandissima qualità a talento, segnano il profilo solo di alcuni dei capolavori dentro ai quali ha profuso il suo impegno. C'è stata in lui anche la vena di regista. Meno considerata, ma non meno interessante per indagarne l'identità.

"Per quanto mi riguarda - diceva - so di non aver mai ricevuto un giudizio esatto nei miei confronti; sono stato considerato un attore promettente quando avevo ormai superato i quarantacinque anni e il massimo riconoscimento che ho ottenuto è stato quello di essere considerato in forma come fossi un giocatore di calcio''. Scontava il pregio di essere spesso l'immagine in cui era difficile riconoscersi: quella di un italiano orgoglioso, cocciuto, oppure cinico, scanzonato, facile agli entusiasmi e alle delusioni, arrampicatore di grattacieli e servo.

In verità è tutta la sua filmografia, da quella iniziale a quella più matura e adulta, a contrassegnare gradualmente il suo timbro, del tutto originale, in una straordinaria capacità di essere comico, tragico, drammatico ed ironico. A volte nello stesso film. Qualità di pochi. Qualità dei grandi.