Piero Gobetti, il giovane intellettuale che fu liberale fino alla morte: “Cosa ho a che fare io con gli schiavi ?”

Pubblicato: Venerdì, 15 Febbraio 2019 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI - 15 febbraio 1926: la morte prematura del fondatore de 'La rivoluzione liberale'

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Piero Gobetti è morto a 25 anni. E’ stato il raffinato intellettuale liberale che forse capì il fascismo prima di altri e lo seppe spiegare meglio in quella che sarebbe diventata la sua forma autoritaria, dittatoriale, avulsa da qualsiasi contesto democratico.

Gobetti era un piemontese di nascita e nei modi, ma non si pensi che fosse di animo chiuso. Pensava, mentre in troppi avevano smesso di farlo e si erano accodati, anche per comodo, all’onda prevaricante.

Nato a Torino il 19 giugno 1901, era figlio del nuovo secolo: il Novecento. Ha saputo lasciare un segno indelebile nella storia culturale d’Italia, sia come intellettuale e sia come organizzatore della cultura (che è un passo diverso dal semplice conoscere). Era innamorato della letteratura, della lettura, studiava, era appassionato di quello che faceva. Un amore intenso, che non risparmiava la sua Ada Prospero. Quando cominciarono a frequentarsi erano giovanissimi e Gobetti era esattamente come è rimasto nelle foto e nell’immaginario collettivo: alto, magro, con una gran testa di capelli vivi e tanti come i suoi pensieri, un paio di occhiali di metallo sul naso. Ada e Piero avranno un rapporto intenso, fatto di amore e politica, tenerezze. 

Gobetti ha saputo fare bene una cosa e per questo è rimasto: ha destato movimenti d'idee nella squadrata e ordinata Torino, ha promosso cultura, incoraggiato i giovani.

Era figlio di genitori di origine contadine che si erano trasferiti nel capoluogo piemontese per iniziare un piccolo commercio. Alunno brillante, nel 1918 si diplomò al liceo Gioberti. Si iscrisse poi alla Facoltà di Giurisprudenza e fece uscire il primo numero di "Energie Nove", di cui era fondatore e direttore. Croce e Salvemini erano i suoi fari. Nel 1919 fu animatore del gruppo che fu coinvolto nella nascita della Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale. Collaborò a numerosi giornali e periodici del tempo: "Il Lavoro", "L'Educazione nazionale", "Poesia ed arte", "L'Ora" di Palermo, "Il Popolo romano" e "Il Resto del Carlino". Un’attività intensissima. Come se volesse mangiarsi il tempo. 

Nel 1921 approdò all"'Ordine Nuovo", organo della minoranza comunista della sezione torinese del Psi. Sulle pagine del quotidiano Gobetti scrisse con lo pseudonimo di Giuseppe Baretti. Si occupò di letteratura e di teatro con delle stroncature che colpirono anche artisti affermati. L’anno seguente, ricollegandosi idealmente all'esperienza di "Energie Nuove", fondò il settimanale "Rivoluzione Liberale", opera rinnovatrice che volle mettere insieme, in un perenne dialogo, gli intellettuali. la borghesia e le coscienze attive del proletariato. Ma Mussolini conquistò il potere. Sotto il fascismo la rivista diventò sinonimo di antifascismo militante. Nel settembre 1924 Gobetti venne aggredito e manganellato, ma due mesi dopo diede vita ad una nuova rivista, "Il Baretti", oltre a nuova casa editrice, la "Piero Gobetti editore", con la quale pubblicherà la prima edizione di "Ossi di seppia" di Eugenio Montale (Leggi: Preferire i ragazzi che cercano, nelle pozzanghere, qualche sparuta anguilla. Eugenio Montale e la sua poesia). Riconoscente, il poeta di lui ricordò più tardi: “Continuo a ricordarlo come un Lohengrin isolato, una figura eroica, un leader senza successo, che aveva però le stimmate del genio. Era sempre in movimento, unendo a una straordinaria curiosità intellettuale la convinzione che la vita si spiega solo con la vita e che l’uomo è il solo fabbro del suo destino, perché fra il bene e il male occorre scegliere, non attendere che scatti il terzo elemento, la Sintesi, dalla scatola a sorpresa che gli studiosi rinvengono sempre nei laboratori della storia. Così finì a essere fatalmente un pruno nell’occhio per chi voleva addomesticare le forze politiche italiane, togliendo loro ogni possibilità di fare la “rivoluzione liberale” in cui Piero ha creduto fino in ultimo, anche a costo di dover lasciare l’Italia”. 

Con “Il Baretti” Gobetti mirò a trasferire sul piano letterario la voce di una opposizione sempre più fioca e divorata. In poco meno di un anno riuscì a catalizzare intorno alla rivista molte intelligenze, approfondendo quella tradizione illuminista che aveva guidato il paese fino alle soglie del Risorgimento. Tutti i suoi libri (editi dal marzo 1923) riportarono in copertina un motto scritto in greco: “Cosa ho a che fare io con gli schiavi?”.

Si dedicò molto agli studi su Vittorio Alfieri, alla letteratura russa, all’arte. La sua integrità morale non lo fece indugiare di fronte agli attacchi. Subì un nuovo pestaggio. Lo rinvennero esanime sulla porta di casa. Così nel 1926 scelse l'esilio a Parigi. Proprio Montale dirà: «Quando si decise a partire per la Francia, dove sperava di far l’editore a Parigi, mi ricordo di essere andato apposta a salutarlo alla stazione di Genova. Viaggiava in terza classe; ci siamo anche abbracciati; sono stato l’ultimo amico che ha visto in terra italiana. Di lì a poche settimane sarebbe morto a Parigi». L'11 febbraio 1926 si ammalò di una bronchite che aveva acuito gravemente i suoi problemi cardiaci, ereditati dalle violenze subite. Trasportato in una clinica di Neuilly-sur-Seine, morì nella notte del 15 febbraio.

Era un illuminato, Piero Gobetti, e sognava una classe politica capace di raccogliere l’eredità del Risorgimento rendendola aderente ai moderni movimenti politici di massa, con l'auspicio  che prima o poi il popolo diventasse attivamente partecipe nello Stato, nella pluralità delle idee, guardando sempre al ‘valore dell’onestà’ come riferimento. Il suo sogno di far nascere uno Stato liberale in grado di saper guardare con interesse al rinnovamento popolare e alle fasce proletarie si infranse contro lo strapotere del fascismo, periodo che lui non calcolò mai come una parentesi, uno sbaglio, un incidente della storia italiana. Anzi, con coraggio lo reputò un’autobiografia della nazione: "...né Mussolini né Vittorio Emanuele hanno virtù da padroni - scrisse - ma gli italiani hanno bene animo di schiavi"

Nell'Elogio della Ghigliottina, sottolineò: "Il fascismo vuole guarire gli italiani dalla lotta politica, giungere a un punto in cui, fatto l'appello nominale, tutti i cittadini abbiano dichiarato di credere nella patria, come se col professare delle convinzioni si esaurisse tutta la praxis sociale. C'è un valore "incrollabile al mondo: l'intransigenza e noi ne saremmo, per un certo senso, in questo momento, i disperati sacerdoti". I suoi articoli lo resero scomodo. La sua analisi sulla situazione italiana non piacque a Mussolini che lo considerò uno degli avversari più pericolosi. In un telegramma, inviato il 1 giugno 1925, al prefetto di Torino, il Duce ordinò di “rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore governo e fascismo“. Così fu.

Gobetti aveva una capacità di agire fuori del comune, suscitava energie, scriveva, teneva continue corrispondenze, pubblicava libri, metteva in relazione tra loro i giovani. La morte lo trovò vivo, come si suol dire in questi casi. E almeno nelle sue parole, sempre lucide, vivo è rimasto.

È sepolto nel cimitero parigino di Père Lachaise, lì dove sono le tombe di Oscar Wilde, Jim Morrison, Maria Callas, Edith Piaf, Chopin, Modigliani. Sul luogo ove riposa c’è una targa recante la scritta: 'Il mio linguaggio non era quello di uno schiavo'