Ennio Flaiano, la creatività intellettuale di un genio. La parola come linfa vitale

Pubblicato: Martedì, 20 Novembre 2018 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Muore il 20 Novembre 1972 un autore che ha segnato il dopoguerra italiano indelebilmente

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“Il peggio che possa capitare a un genio è di essere compreso”. Ennio Flaiano (1910 – 1972), è stato scrittore, sceneggiatore, giornalista, critico cinematografico e teatrale. Questo dice la biografia. Così, per sintetizzare quello che non è sintetizzabile. Oggi è ricordato molto per i suoi aforismi, ma è poca cosa rispetto al talento imparagonabile che fu.

Implacabile, pungente, malinconico, ironico, sarcastico, tragico (senza essere serio, ovviamente). Un uomo, come citò nel ‘Diario degli Errori’, con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole.

Condannò la società dei consumi, i mezzi di comunicazione di massa, certa pubblicità, l’ipocrisia della politica. Un sognatore, ma disilluso, un laico tradizionalista. Lo psicologo del suo tempo, autore di paradossi memorabili come "I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume" o disegnatore di visioni: "Fra trent'anni l'Italia non sarà come l'avranno fatta i governi, ma come l'avrà fatta la televisione". Sarebbe oggi un campione di Tweet, o forse no. Però le sue frasi sono spesso abusate, riducendolo, a chi non lo conosce, a un ‘battutista’ o quasi.

Descrisse gli italiani in modo originale e unico. Un grande traduttore della realtà.

Nato a Pescara nel 1910, arrivò a Roma e qui sviluppò tutto il suo talento. Conobbe il pittore Orfeo Tamburi, fu amico di Mino Maccari, collaborò come scenografo con Anton Giulio Bragaglia, fu amico e collega di Mario Pannunzio,  Leo Longanesi (Leggi: L’intelligenza irrequieta, scomoda e inafferrabile di Leo Longanesi) e altre firme del giornalismo dell'epoca. Partecipò alla Guerra d'Etiopia. Tornato a Roma, nel 1938 collaborò al settimanale Omnibus. Nel 1939 iniziò ad occuparsi di cinema con il settimanale 'Oggi'. Frequentò l'Antico Caffè Greco e le trattorie dove si incontravano spesso i personaggi della vita letteraria e artistica quali Aldo Palazzeschi, Carlo Levi, Sandro Penna, persino Orson Welles.

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Tuttavia, ricordando l'Abruzzo natio, scriverà in una lettera: “Tra i dati positivi della mia eredità abruzzese metto anche la tolleranza, la pietà cristiana (nelle campagne un uomo è ancora nu cristiane), la benevolenza dell'umore, la semplicità, la franchezza nelle amicizie; e cioè quel sempre fermarmi alla prima impressione e non cambiare poi il giudizio sulle persone, accettandole come sono, riconoscendo i loro difetti come miei, anzi nei loro difetti i miei. Quel senso ospitale che è in noi, un po' dovuto alla conformazione di una terra isolata, diciamo addirittura un'isola (nel Decamerone, Boccaccio cita una sola volta l'Abruzzo, come regione remota: «Gli è più lontano che Abruzzi»); un'isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare, monumentali e libere: se ci pensi bene, il Gran Sasso e la Majella son le nostre basiliche, che si fronteggiano in un dialogo molto riuscito e complementare... Bisogna prenderci come siamo, gente rimasta di confine (a quale stato o nazione? O, forse, a quale tempo?), con una sola morale: il lavoro. E con le nostre Madonne vestite a lutto e le sette spade dei sette dolori ben confitte nel seno. Amico, dell'Abruzzo conosco poco, quel poco che ho nel sangue”.

Grande critico della cultura e del costume del suo tempo, aveva quel distacco che sanno avere quelli che stanno sempre fuori, che riescono a guardare le cose. Credeva solo nella parola e sparava fucilate dalla sua finestra d’autore. Ci sono modi di dire che sono rimasti tra noi: “Saltare sul carro del vincitore”, “La situazione politica è grave, ma non seria”, “Coraggio, il meglio è passato”. Fustigava banalità, mode, ignoranza, luoghi comuni. Assaggiava e mordeva. Il cinismo, però, non gli è mai appartenuto.

Eppoi Roma. Flaiano fotografa il suo odio e il suo amore per l’Eterna città in modo memorabile col suo ‘Un marziano a Roma’ ove scatena la sua ironia sulla città che assorbe tutto. La storia, per chi ha un po' di dimestichezza con i libri, è nota: un alieno atterra con la sua astronave nella Capitale, nei pressi di Villa Borghese. Allo stupore dei romani si accompagna subito una enorme curiosità e un grande scalpore investe cittadini e giornali. Chi lo vuole vedere, chi lo vuole salutare, intervistarlo. Il tempo passa e svanito l'effetto della novità, i romani si abituano e iniziano a ignorarlo. Così i fotografi, che fino a qualche tempo prima avevano fatto a gara per immortalarlo, lo fulminano così: “A Marzia', te scansi!?”.

Flaiano era intelligente, ma lo era veramente. Quando approdò al cinema mano mano diventò uno sceneggiatore straordinario: 'Il segno di Venere' di Dino Risi, 'La decima vittima' di Elio Petri, ma soprattutto il legame con Fellini: “Le notti di Cabiria”, “La strada”, ‘8 e mezzo’, ‘La Dolce Vita’. Periodo luminoso, un'epoca segnata per sempre. Collaborò anche anche Antonioni ne “La Notte”. Del grande regista disse: “Vive nelle difficoltà come i pesci che vanno a profondità abissali. Se non ci sono, le crea: sono un incentivo alla sua immaginazione”.

Aveva una creatività tagliente, feconda, straordinaria. Sarebbe stato eccezionale nella nostra epoca che manca di punti di riferimento. Fu sempre lui ad affermare che “l'Italia è un paese dove sono accampati gli italiani” e che inventò una di quelle sciabolate che oggi calzano a pennello per certi individui che usano i social facendo opinione (ma senza costrutto): “Oggi il cretino è pieno di idee”.

Capì gli italiani, ma dagli italiani, in fondo, non fu capito. Come il genio che descriveva e che lo animava.