Gigi Meroni, l’arte nei piedi e nella testa. Il ricordo di un calciatore atipico e non conforme

Pubblicato: Lunedì, 15 Ottobre 2018 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Il 15 ottobre del 1967 la sua tragica ed improvvisa morte

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Aveva baffi e barba. Si vestiva a suo piacimento. Era allegro e ribelle senza essere ideologico. Un non conforme. Così era Gigi Meroni, calciatore e uomo, rispetto ai canoni del suo tempo.

In una Torino ancora 'città-fabbrica', sempre rigorosa e quadrata, apparve ai suoi tempi come un marziano.

Gli dicevano che dribblava troppo, che faceva il solista. Lo imputavano a lui, che in testa aveva un’orchestra di curiosità e fantasie. Veloce, rapido, ala vera, grande talento.

Gigi Meroni è stato un anticipatore di quella generazione degli anni sessanta che aveva deciso di cambiare tutto. Nato a Como, morto a Torino, travolto da una macchina dopo una partita di calcio. Il suo investitore, Attilio Romero, diventò più tardi il presidente dei granata. 

Quella di Meroni è la storia di un ragazzo di provincia che diventa grande in città, che perde il padre presto e vede la madre impegnarsi per andare avanti in una vita di poche cose. Sono i tempi in cui le partite possono durare ore in mezzo alla polvere. Gigi cresce e diventa disegnatore per foulard e indumenti tessili per donna. Un apprendista che guadagna pochissimo e corre sui rettangoli di gioco. Talento naturale, un'esteta in tutto e per tutto.

Un giorno finisce al Genoa e in una città di mare come quella lui si costruisce: ascolta Paoli, De Andrè, Lauzi, Tenco, si fa crescere i capelli come i Beatles, ha atteggiamenti che non piacciono ai 'conservatori'. Si innamora di Cristiana Understadt, una donna che guarda al tiro a segno al Luna Park e per la quale spende, solo per vederla, tanti soldi per giocare. Ma lei è promessa sposa di un aiuto regista. Temerario, Gigi va persino al suo matrimonio. Lei dice ''si'', ma poco tempo dopo, come in una sorta di rivisitazione del film ''Il laureato'', la figlia del giostraio e lo sportivo vanno a convivere assieme.

Arriva il giorno del salto. A Torino, sponda granata. Meroni è un irregolare per il ct della nazionale Edmondo Fabbri, lo è per la scuola dei benpensanti che gli tirano i soldi per andare dal parrucchiere. Un clima impensabile per i nostri tempi. Ma lui va avanti per la sua strada.

''Ognuno è libero di fare quello che gli va'', cantava Tenco. Ma era un'Italia ancora chiusa, quella di metà anni sessanta, ma è pur sempre in quell'Italia che Gigi Meroni diventò la "farfalla". Abitava in una soffitta su Piazza Vittorio. Per un ragazzo che non si era fatto troppi problemi ad andarsene in giro con una gallina al guinzaglio, quella fu una dimensione naturale. Aveva infatti uno stile di vita che somigliava alla sua leggerezza (che non è superficialità) e alla creatività del suo vestire. Si comprò una ''Balilla'', sradicandola dal suo sicuro destino di pollaio provvisorio. La targa era la 777, come il numero della sua maglia al cubo.

Le voci insistenti di un suo passaggio alla Juventus, con un'offerta di 750 milioni di lire, scatenarono una specie di "insurrezione" popolare e il presidente Orfeo Pianelli, sotto la pressione della piazza, rinunciò al progetto.

La sera del 15 ottobre 1967, dopo l'incontro contro la Sampdoria vinto dai granata per 4-2, Meroni e Fabrizio Poletti, come tutti gli altri compagni di squadra, abbandonarono il ritiro post-partita prima del termine. Un premio per la bella prestazione. Dirigendosi verso il bar che frequentava per fare una telefonata alla sua compagna, attraversò di slancio Corso Re Umberto. Una Fiat 124 Coupé lo colpì in pieno alla gamba sinistra. Sbalzato in aria dall'impatto, cadde a terra dall'altra parte della carreggiata e venne travolto da una Lancia Appia che ne trascinò il corpo per alcuni metri. Morì poche ore dopo, alle 22.40, all'ospedale Mauriziano. La Fiat, guidata da Attilio Romero, un neopatentato grande ammiratore del giocatore e suo sosia. Più tardi, nel 2000, diventerà presidente del Torino. I casi del destino.

La settimana dopo il funerale del giocatore-artista, la squadra del Toro affrontò la Juventus nel derby. Nestor Combin, grande amico di Meroni, ancora sconvolto da quanto accaduto e febbricitante, entrò in campo come una furia. Un gol al terzo minuto, raddoppio al settimo, terzo gol al quindicesimo della ripresa. Una rabbia che distrusse la squadra bianconera. Ci fu spazio anche per un quarto gol. Lo segnò, non casualmente, dopo una lunga corsa palla al piede, il numero 7: Alberto Carelli. Quest'ultimo, dopo aver trafitto il portiere, alzò la palla al cielo. La dedica più bella.

Il genio di Meroni è rimasto, come quel gol a girare contro la ''grande Inter'' di Herrera a San Siro. Di lui Gianni Brera scrisse: ''Era un simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni''.

Rimane la bella emozione di ricordarlo. Fu l’esempio di un’immaginazione potente e profonda capace di inventarsi una cosa e cambiare, con una giocata dentro un prato verde o un suo comportamento fuori schema, tutta una visione del mondo e della vita. Perché fino a quando non arriva un Gigi Meroni il sistema rimane quello in cui tutti sono. Fino a quando non arriva uno come lui, appunto, a cambiarti la testa in un desiderio comune di libertà.