Augusto Daolio, la voce di un artista che ha unito le generazioni

Pubblicato: Domenica, 07 Ottobre 2018 - Fabrizio Giusti

ACCADDE OGGI – Il 7 Ottobre 1992 muore il leader dei ‘Nomadi’

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Augusto Daolio le sembianze del profeta ce l’aveva. Barba lunga, parole giuste e misurate. Era il leader di un gruppo eterno, i 'Nomadi', che ha unito le generazioni attraversando i decenni. Un’anima artistica coerente che ha cantato l’amore, la rabbia, il paesaggio, il viaggio, la poesia della quotidianità, la bellezza dello stare insieme e condividere le emozioni.

‘Come potete giudicar, per i capelli che portiam’. Era iniziata così la carriera di questo gruppo di ragazzi che vedeva nel suo ‘frontman’, direbbero quelli che scrivono di musica, il suo massimo esempio e la sua spiegazione profonda. Augusto Daolio aveva i capelli lunghi quando era difficile portarli, era serio, a suo agio sul palcoscenico, differente dalla massa dei cantanti che negli anni sessanta, in piena epoca ‘beat’, imperversavano in lungo e largo per l’Italia. Ma anche quando il successo lo ha colto, non ha mai dimenticato identità ed origine. Era nato a Novellara ed è morto a Novellara, il 7 ottobre 1992. Viaggiava, cantava, andava in tour, ma sempre nella sua terra di origine tornava. Ed anche quando iniziò a cambiare, quella stessa terra, continuò ad amarla contraccambiato da un pubblico che non lo ha mai abbandonato, anche quando non c’era più la notorietà di un tempo e i gusti della massa andavano da tutt'altra parte.

Era rimasto sempre se stesso e lo rimase fino in fondo, anche negli ultimi anni, quando la mutazione generazionale aveva preso il sopravvento e Vasco Rossi aveva già cantato ‘Colpa d’Alfredo’, Pierangelo Bertoli duettava in modo indimenticabile con i Tazenda, Luca Carboni aveva inciso ‘Ci stiamo sbagliando ragazzi, i CCCP imperversavano con la loro dimensione fuori dal comune, Dalla, Morandi e l’amico Guccini avevano cantato insieme ‘Emilia’, e Luciano Ligabue aveva successo con ‘Non è tempo per noi’. Tutti artisti che arrivavano da lì vicino, in quella cultura tra la ‘Via Emilia e il West’, per dirla con Guccini stesso, che raccontava di cose che erano accadute e che stavano cambiando.

Daolio era lì, da protagonista, provenendo con il suo passaggio dagli anni sessanta e settanta del secolo scorso, da quel cambiamento delle città, delle mode  e dei costumi di quell'epoca di una grande creatività e di speranza, ma pur sempre influenzata, nel suo caso, da una collocazione geografica che voleva dire anche cultura e appartenenza fisica. Un mondo piccolo che emergeva dentro alla voglia di mondo più grande e viceversa, in quell’ambito del vivere e del sentire che ha messo Guccini da Pavana, molti anni più tardi, nelle condizioni di tradurre Plauto nel suo dialetto mantenendo il clima di comicità, di familiarità, del bicchiere di vino, di una partita a carte che era (ed è) un timbro tipico di questi luoghi senza finire nello stereotipo. Lo ha fatto Guccini, appunto, che ha vissuto tra Pavana, Modena e Bologna, dove le radici, la musica e la conoscenza del rock ‘n roll e del folk hanno messo insieme una miscela tra le più interessanti della canzone italiana e della cultura.

Cesena, Forlì, Faenza, Imola, Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma e poi più in là: la forza di una terra che aderisce alle proprie strade battute, nel corso della storia, da legionari, mercanti, pellegrini, narratori, romanzieri, registi, braccianti, vacanzieri, turisti. Se non si conosce questa vicenda umana e sociale, non si può comprendere altro. 

Daolio è stato un cantante, attivista e pittore. Non è stato solo ‘Io Vagabondo’, 'Canzone per un’amica', la bellissima 'Noi non ci saremo', che finisce il classifica parlando di società post-atomiche, 'Dio è morto' (censurata dalla Rai, ma non da Radio Vaticana e dalle parrocchie), le altre collaborazioni 'gucciniane' e quelle totalmente proprie, frutto della sua poesia e di quella del gruppo. “Sono nato il diciotto febbraio 1947 a Novellara di Reggio Emilia, nel cuore della notte – raccontò - mentre freddo e brina duellavano con rami secchi di pioppi e tigli. Sono nato al caldo e mi hanno chiamato Augusto, come un nonno che non ho mai conosciuto. Il cognome Daolio mi è stato dato da un uomo semplice e a suo modo dolce e complice. Dall’età di sedici anni canto in un gruppo che si chiama Nomadi, scrivo canzoni e giro il mondo. C’è un altro mondo dentro di me che racconto con il disegno e la pittura, lo faccio da parecchi anni e alberi, rocce, cieli, lune, ombre e altro popolano questi miei racconti. Ho lo studio a Novellara in via de Amicis, il numero credo sia il quarantaquattro, non ho il telefono ma montagne di libri e di oggetti”. In questa parole, una bella sintesi.

Augusto Daolio è uno di quegli artisti che sono capitati poche volte in Italia. Perché non si fece mai attrarre dalle scemenze e dalle copertine, dall’imposizione dei codici non scritti della legge dei mercati discografici. Uno libero, di testa e di arte, dotato di una voce subito viva e riconoscibile fin dal primo ascolto. E’ rimasto nel ricordo di molti perché ha saputo essere semplice, carismatico, dalla parte del suo pubblico. Non gli è mai mancata una stretta di mano e un sorriso per i suoi amici e ammiratori. Aveva una dote sempre più rara, ovvero l’umiltà, la voglia di stare in mezzo alla gente. Per questo non risparmiò le sue energie neanche quando il fisico lo stava abbandonando a causa di una malattia incurabile.

Un uomo di pianura, che amava guardare avanti nel panorama sconfinato. Per viaggiare, imparare, conoscere, vedere, fare il mondo e ritornare. Per aver qualcosa da dire, quando era il momento di parlare e cantare.